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Domenico Ghirlandaio, particolare dell’affresco “L’annuncio dell’angelo a Zaccaria”,  presso la Cappella Tornabuoni (1485-1490) in Santa Maria Novella, Firenze. Da sinistra si distinguono Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Agnolo Poliziano e Demetrio Calcondila.

L’uomo, insomma, imita tutte le opere della natura divina e perfeziona, corregge ed emenda le opere della natura inferiore. Quindi l’essenza dell’uomo è fondamentalmente simile alla natura divina, dal momento che l’uomo di per sé, cioè col suo senno e la sua abilità governa se stesso, per nulla circoscritto entro i limiti della natura corporea, ed emula le singole opere della natura superiore.

(…) il nostro animo non considera soltanto le nostre necessità fisiche, ma anche i vari diletti dei sensi, quasi un nutrimento della fantasia. E non solo il nostro animo lusinga la fantasia con varie attrattive, mentre ogni giorno quasi per gioco blandisce la fantasia con diversi diletti, ma di tanto in tanto anche la ragione pensante opera, più tardi, e desiderosa di propagare le sue creazioni splende fuori di sé, e rivela in modo evidente quanta potenza abbia il nostro ingegno, attraverso le tessiture dei lanaioli e dei setaioli, le pitture, le sculture, le architetture. E nel creare queste opere spesso non considera affatto le comodità del corpo, l’appagamento dei sensi (poiché talvolta sopporta spontaneamente disagi e molestie che da esse gli derivano) ma il perfezionamento della sua facoltà espressiva, e la dimostrazione della propria capacità. In queste opere d’arte si può scorgere come l’uomo usi tutte le materie di ogni parte del mondo, quasi all’uomo siano tutte soggette. Usa, dico, gli elementi, le pietre, i metalli, le piante e gli animali e li traspone in numerose forme, cosa che le bestie non riescono a fare mai. Né si accontenta di un solo elemento o di alcuni come i bruti, ma si vale di tutti, come se di tutti fosse signore. Calca la terra, solca l’acqua, sale nel cielo su altissime torri, per non parlare di Dedalo e Icaro. Accende il fuoco e se ne vale abitualmente e se ne diletta grandemente lui solo. (…)

L’uomo dunque, che provvede universalmente sia agli esseri viventi sia alle cose inanimate, è in un certo senso un dio. 

Marsilio Ficino (Figline Valdarno, 1433 – Careggi, 1499), dalla Theologia platonica de immortalitate animorum, 1469-1474, pubblicata nel 1482.

 Società Marsilio Ficino

Domenico Ghirlandaio, L’annuncio dell’angelo a Zaccaria, Cappella Tornabuoni (1485-1490), Santa Maria Novella, Firenze

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Antonio Gramsci (Ales, Cagliari 1891 – Roma 1937)

“Gli operai della Fiat sono ritornati al lavoro. Tradimento? Rinnegamento delle idealità rivoluzionarie? Gli operai della Fiat sono uomini in carne e ossa. Hanno resistito un mese. Sapevano di lottare e resistere non solo per sé, non solo per la restante massa operaia torinese, ma per tutta la classe operaia italiana.

Hanno resistito per un mese. Erano estenuati fisicamente perché da molte settimane e da molti mesi i loro salari erano ridotti e non erano più sufficienti al sostentamento familiare, eppure hanno resistito per un mese. Erano completamente isolati dalla nazione, immersi in un ambiente generale di stanchezza, di indifferenza, di ostilità, eppure hanno resistito un mese.

Sapevano di non poter sperare aiuto alcuno dal di fuori: sapevano che ormai alla classe operaia italiana erano stati recisi i tendini, sapevano di essere condannati alla sconfitta, eppure hanno resistito per un mese. Non c’è vergogna nella sconfitta degli operai della Fiat. Non si può domandare a una massa di uomini che è aggredita dalle più dure necessità dell’esistenza, che ha la responsabilità dell’esistenza di una popolazione di 40.000 persone, non si può domandare più di quanto hanno dato questi compagni che sono ritornati al lavoro, tristemente, accoratamente, consapevoli della immediata impossibilità di resistere più oltre o di reagire. (…)

Gli operai della Fiat per anni e anni hanno lottato strenuamente, hanno bagnato del loro sangue le strade, hanno sofferto la fame e il freddo; essi rimangono, per questo loro passato glorioso, all’avanguardia del proletariato italiano, essi rimangono militi fedeli e devoti della rivoluzione. Hanno fatto quanto è dato fare a uomini di carne e ossa; togliamoci il cappello dinanzi alla loro umiliazione, perché anche in essa è qualcosa di grande che si impone ai sinceri e agli onesti.”

Antonio Gramsci, 8 maggio 1921, da Odio gli indifferenti, ed. Chiarelettere, Milano 2011.

Sito della Fondazione Istituto Gramsci – Roma

Ps. In questo ennesimo week-end elettorale, consiglio vivamente la lettura del libro appena citato, non perché io sia comunista o post comunista nostalgico o tanto meno berlusconiano: per motivi diversi da sempre rifiuto questi schieramenti che in modi e tempi differenti si sono dimostrati arroganti, corrotti, non propositivi e fallimentari (a Ravenna il PD ex PCI-PDS-DS in 41 anni ininterrotti di feudo bulgaro-coreano non si è certo comportato in maniera migliore del PDL ex FI-AN, già ex DC-PSI-MSI, a livello sia locale che nazionale. Giusto la facciata. Ma neanche ormai. Basta vedere la cementificazione selvaggia della costa nell’ultimo decennio. Per non parlare della lottizzazione di dirigenze pubbliche e private importanti o degli ammanchi milionari in coop. sociali. Naturalmente ogni città fa storia a sé: fossi a Firenze ad esempio darei fiducia a Renzi, a Bari a Emiliano o alle regionali a Vendola, mentre in Veneto all’ottima Puppato. Per la verità, anche l’attuale sindaco uscente di Ravenna, Fabrizio Matteucci, ha cercato di lavorare meno malvagiamente del suo predecessore… ma altri membri riciclati della sua giunta, altri volti immarcescibili del PD locale… insomma, se qualcuno volesse saperlo, visto anche il lavoro di controllo e denuncia svolto in Regione dai consiglieri “grillini” Favia e Defranceschi, quest’anno proverò a votare l’ultima ratio, il Movimento 5 stelle).

Il testo di cui sopra è una formidabile raccolta di articoli gramsciani, lucidi, profetici e ancora colmi di ideali, tutto ciò che si è ormai estinto nella politica più che mai miope di questo Paese. Forse l’aspetto più penoso e sorprendente a un tempo di questo pezzo è proprio il suo essere profetico, perché fa venire il sospetto che da noi la storia si ripeta instancabilmente, in questo caso a novant’anni di distanza, come un incubo da cui non si riesce ad uscire. E in tutto questo la politica o meglio i politici, con quelle facce sorridenti bene in mostra in questi giorni, hanno la loro gran parte di responsabilità.

A proposito, cari cittadini, per fare la differenza e ridare dignità alla parola responsabili, non scordiamo il referendum del 12 e 13 giugno, totalmente censurato dalle reti pubbliche e non. Un suggerimento? Votate Sì per dire NO a nucleare, privatizzazione dell’acqua e (il)legittimo impedimento.


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Santi di Tito (1536-1603), Ritratto postumo di Niccolò Machiavelli (1469-1527), Palazzo Vecchio, Firenze

Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare, ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni, e quelli loro amori; ricordomi de’ mia, godomi un pezzo in questo pensiero.

Transferiscomi poi in sulla strada, nell’hosteria, parlo con quelli che passono, dimando delle nuove de’ paesi loro, intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie d’huomini.

Viene in questo mentre l’hora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa e paululo patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugnaio, due fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo per tutto dì giuocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose, e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Così, rinvolto in tra questi pidocchi, traggo il cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.

Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro actioni, e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.

Niccolò Machiavelli (1469-1527), dalla Lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, dall’esilio dell’Albergaccio.

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Manifesto della mostra su Amico Aspertini (1474-1552), col particolare di San Giorgio dalla tavola della Madonna col Bambino e Santi presso il Museo Nazionale di Villa Guinigi a Lucca

 

Amico Aspertini (Bologna, 1474-1552): spirito libero ed estroso nella Bologna di inizio ‘500, dove un paio di anni fa gli è stata dedicata un’antologica assai valida, curata da Andrea Emiliani e Daniela Scaglietti Kelescian presso la Pinacoteca Nazionale (catalogo Silvana Editoriale, Milano, 2008), evento in linea con le Biennali d’arte antica inaugurate in città nel 1954 da Cesare Gnudi, con una monografica su Guido Reni.

 

Amico Aspertini, Adorazione dei magi, Pinacoteca Nazionale, Bologna

 

Dell’Aspertini e di altri protagonisti d’arte a lui coevi, la cui riscoperta in sede critica comincia con Roberto Longhi (anni ’30 del secolo scorso), venivano esposte oltre un centinaio di opere tra dipinti, disegni (spesso contenuti in quaderni preziosi detti vacchette), miniature, stampe d’epoca, ceramiche: dunque era presente quasi l’intero corpus dell’artista, fatta eccezione per le sculture (facciata di San Petronio), i cicli di affreschi superstiti (in Santa Cecilia e San Giacomo a Bologna, presso le Rocche di Gradara e Isolani di Minerbio e nella chiesa di San Frediano a Lucca) e poco altro.

 

Amico Aspertini, Seppellimento dei Santi Valeriano e Tiburzio, Oratorio di Santa Cecilia, Bologna

 

Il confronto fra la mano aspertiniana e le cose dei suoi maggiori o minori contemporanei chiariva il clima artistico in cui l’artista crebbe, si formò o contro cui polemizzò e che fu per lui fonte di ispirazione, citazione, esercizio o, appunto, contrapposizione, per affermare uno stile ed una personalità inconfondibilmente proprie, in aggiornamento costante e spesso in contrasto rispetto alle novità dell’epoca (da Raffaello a Michelangelo, ai maggiori umbro-toscani e veneti, sino ai tedeschi più importanti), grazie anche a spostamenti continui fra Bologna, Roma, Venezia, Firenze, Lucca e Mantova.

 

Amico Aspertini, Madonna col Bambino e Santi (Pala del Tirocinio), Pinacoteca Nazionale, Bologna

 

 

Amico Aspertini, Scene della vita di San Petronio, anta d'organo, Basilica di San Petronio, Bologna

 

Animo inquieto dunque, bizzarro e anticonvenzionale, come già annotarono con giudizi e aneddoti vari (Aspertini, ad esempio, era ambidestro) intellettuali coevi, dall’amico Achillini al più livoroso Vasari, sino alla Felsina Pittrice del 1678 del Malvasia.

E furono proprio queste peculiarità, mai disgiunte dal valore artistico, a farne uno degli artisti più richiesti e apprezzati, specie dall’alta società bolognese del tempo, sebbene delle decorazioni profane di numerose facciate nobiliari non resti ormai nulla, come dell’arco trionfale, in collaborazione con Alfonso Lombardi, realizzato nel 1530, in occasione dell’incoronazione di Carlo V a Bologna da parte di papa Clemente VII.

Dato per acquisito l’apprendistato nella bottega del padre Giovanni Antonio e del fratello maggiore Guido, l’esposizione andava dai primi e formativi incontri romani (1496), ancora al seguito del padre, ma, in specie, a contatto con Filippino Lippi e Pinturicchio, al classicismo antagonista di Perugino, Raffaello e Fra’ Bartolomeo, come del Costa e del Francia (nel quale pure sono presenti valori luministici fiamminghi) nella Bologna di Giovanni II Bentivoglio, dalle complessità intellettuali e fiorentine di Piero di Cosimo, alle inquietudini religiose del “lombardo-veneto” Lotto, alla consonanza di linguaggio espressionista coi nordici, Dürer anzitutto, oltre a Schongauer, Kulmbach, Luca di Leida, Cranach, Grünewald, Bosch (questi ultimi tre non presenti in mostra), singolarità di vedute condotte però dall’Aspertini al parossismo e che, insieme alle stravaganze ferraresi del Dosso e del primo tempo di Mazzolino, andranno ad alimentare tanti particolari in pittori locali come Francesco Zaganelli, il primo preraffaellesco Bagnacavallo o Filippo da Verona.

 

Amico Aspertini, Ritratto di Alessandro Achillini (inedito non presente in mostra), Galleria degli Uffizi, Firenze

 

Del resto, le stranezze sono comuni anche in certa ritrattistica coeva, fenomenale nel Romanino o nella maniera già moderna del Parmigianino, sebbene nelle eleganze di quest’ultimo, come nota Eugenio Riccomini nel saggio in catalogo Antiraphael, permanga ricerca del bello, all’opposto degli esiti paralleli dell’Aspertini, come nelle tavole per le ante dell’organo di San Petronio (1531), “irridente vessillo del brutto”, linguisticamente antibembeschi, quanto Raffaello e i raffaelleschi furono classicamente e politamente bembeschi.

 

Amico Aspertini, Pietà coi Santi Marco, Ambrogio, Giovanni Evangelista e Antonio Abate, Basilica di San Petronio, Bologna

 

E a proposito di San Petronio, molti volti dell’artista, talvolta di profilo, talaltra di scorcio, hanno volutamente un che di caricaturale, a metà fra certi esperimenti fisiognomici leonardeschi e, quasi, alcune intuizioni grafiche ante litteram del fumettista Jacovitti, come la Madonna della Pietà (1519) sempre nella basilica bolognese o a Lucca, nelle bizze affrescate in San Frediano (1508-09).

Dunque la mostra ha precisato una volta di più quanto fosse variegato il panorama anche emiliano degli “eccentrici irregolari” nei primi decenni del XVI secolo, periodo percorso da una follia anticlassicista e padana che, secondo la lezione di Arcangeli, ha radici antiche, da Wiligelmo ai giorni nostri, passando per Vitale, “l’officina ferrarese”, l’Aspertini appunto, sino all’isolamento biografico voluto da Morandi, o, su vie opposte e parallele, si pensi alle allucinazioni cromatiche di un Ligabue o dell’ultimo Moreni, o, ancora, all’estro di Ontani, mentre in ambito letterario agli esordi di Ermanno Cavazzoni, già cosceneggiatore felliniano e, nel cinema proprio al senso del grottesco e al fool felliniani, al dramma patetico nei “matti assassini” di Avati o all’alienazione mentale dei Deserti del ferrarese Antonioni come del bolognese Zurlini.

 

Amico Aspertini, Trasporto del Volto Santo, Chiesa di San Frediano, Lucca

 

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Bill Viola, Emergence, 2002

Su Bill Viola (New York, 1951) si tenne un paio di anni fa un’antologica importante al Palazzo delle Esposizioni di Roma, Visioni interiori (ottobre 2008 – gennaio 2009), curata da Kira Perov, moglie e collaboratrice dell’artista.

Bill Viola, Silent Mountain, 2001

Trattandosi del più grande videoartista vivente e proprio per i suoi ralenti ipnotici era, giocoforza, una mostra-esperienza che desiderava il coinvolgimento dello spettatore più di un’esposizione tradizionale.

Venivano presentati gli ultimi dodici anni dell’artista (1995-2007), lasciando al catalogo l’analisi e le immagini dei lavori precedenti, per sviluppare i quali, già da metà anni ’70, l’allora giovane e promettente Viola, neodiplomato in arti visive (Syracuse University, 1973), si reca a Firenze, in qualità di direttore tecnico dello studio di videoarte art/tapes/22, vera palestra tecnica e di incontri con artisti contemporanei (Paolini, Kounellis, Merz, Acconci, Jonas, Terry Fox) e del passato, per lui altrettanto contemporanei, come Andrea di Bartolo o il folgorante Pontormo.

Successivamente, altre illuminazioni segneranno il suo cammino artistico e umano, come il paesaggio desertico della Death Valley californiana o l’accostamento al pensiero Zen in Giappone e, ancora, la ricerca assidua della parola mistica (Rūmī, San Giovanni della Croce, Meister Eckart, Chuang Tzu, la via negativa dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita), cose che lo porteranno a legare “il grande mistico e l’artista” nell’universalità delle loro ricerche spirituali, per indagare attraverso il mezzo scelto, ovvero il video progetto, il nascere e il morire, il tema eterno e appunto universale dell’esistere, che nonostante tutto, resta mistero. Beninteso, senza alcun equivoco o restrizione religiosa. Anzi. È l’adesione del tutto corpomente al tutto circostante, spirito-concreto-vivente, oltre però un semplice animismo.

Bill Viola, Quintet of the Astonished, 2000

Bill Viola, Pneuma, 1994

Viola, positivamente sincretico, va oltre la citazione filorinascimentale e antica, di cui pure si serve per rivisitarla, come delle forme in dittico, trittico o polittico, o della narrazione delle predelle sacre, poiché parte della cultura visiva occidentale ed europea in particolare, come va oltre l’essere americano (mentre, restando in ambito di immagini video o pictae, lo è e profondamente David Lynch) nel riflettere sul senso del tempo umano, iperrallentato nei suoi video, per esaltare la sacralità dei gesti, delle espressioni, di ciò che sta avvenendo o che potrebbe essere, effetti dovuti anche ad un aggiornamento costante rispetto alle novità tecniche, di cui, col tempo, diviene maestro e virtuoso.

L’effetto è stupore, incantamento: The Greeting (1995), The Crossing (1996), Dolorosa e Anima (2000), Surrender, Catherine’s room, Four Hands, Silent Mountain (2001), Emergence (2002) sino a Ocean Without a Shore (2007), per citare alcuni fra i lavori ultimi.

Bill Viola, Ocean Without a Shore, 2007

Nonostante l’assalto delle immagini mediatiche che ci sparano di fronte senza sosta, falsando le nostre percezioni, io continuo ad avere una grande fede nella potenza intrinseca delle immagini (e con immagine intendo il complesso d’informazioni ricevute attraverso la vista, l’udito e tutte le facoltà sensoriali). Aver inserito il fattore tempo nell’ambito dell’arte visiva è stato decisivo quanto il fatto che Brunelleschi affermasse il valore della prospettiva, in uno spazio pittorico tridimensionale. Oggi la pittura ha una quarta dimensione, le immagini acquistano vita (…), la vera materia prima, non sono le telecamere ed il monitor, ma il tempo e l’esperienza, ed il vero luogo in cui l’opera esiste non è sullo schermo o all’interno del perimetro della stanza, ma nella mente e nel cuore di chi l’ha vista, dove tutte le immagini vivono.” (Bill Viola, in Visioni interiori, Firenze, 2008).

Bill Viola, Nantes Triptych, 1992

Bill Viola – official website



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