Pubblico un mio testo apparso sull’ultimo Mosaïque Magazine (n.21 – Aprile 2021) su Sara Vasini, amica preziosa e artista ingegnosissima. Ringrazio ancora una volta Renée Malaval e Gilles Antoine per questo loro bellissimo spazio che fa conoscere tanta arte musiva contemporanea al resto del mondo.
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Sara Vasini. Labirinto delle meraviglie
di Luca Maggio
“Scrivere significa fare nel fallimento l’esperienza dell’essere.” Joseph Conrad
Non dovrei scrivere questo articolo su Sara Vasini.
Forse proprio perché da anni seguo il suo lavoro con ammirazione e le voglio bene come amica. Troppo coinvolto, si direbbe. Ma neanche. È che le parole con lei non sono mai sufficienti per riuscire a capire. Sarebbe meglio ascoltare. Le opere di Sara hanno il potere di spiazzare, di farti sentire al punto d’inizio proprio mentre credi di essere alla fine di un ipotetico filo di Arianna, per altro suo personale archetipo femminile. Il labirinto non è solo una metafora per lei: è il suo stato creativo permanente. Se lo si accetta, è davvero bello perdersi.
Mi ha sempre stupito la sua capacità inventiva, certo sostenuta da robuste doti tecniche, anche se il punto non è fare con arte, ma fare arte: sono le motivazioni dell’artista a cambiare la percezione, ovvero il saper vedere anche nostro, di osservatori desiderosi di comprendere, al di là del mezzo e del metodo usati che, sebbene molto importanti, non possono da soli esaurire il significato formale e totale di un’opera o di una poetica.

Poliedrica è la sua attività, ma l’anima, la formazione, la grammatica – o come direbbe lei “la lingua madre” – restano quelle di una mosaicista orgogliosa di esserlo, al di là delle sciocchezze di mercato. Le mode passano, l’arte resta. Il mosaico – il suo pensare e fare mosaico e aver dato linfa nuova all’idea di musivo – è arte. Lei lo sa, il mosaico lo sa. Tanto basta. Sara fa mosaico anche quando non sembra: le sue calligrafie ovvero i “graforitratti” non sono una contaminazione grafica, ma un modo altro e nuovo di intendere e credere nel mosaico. Per questo non le sono mancati premi e riconoscimenti ed esposizioni importanti nel corso degli ultimi anni. Tutto meritato.
Così ho deciso di raccontare almeno parte della sua complessità invitando il lettore a osservare un suo unico lavoro, Wunderkammer, che definirei un’opera-mondo e, per certi versi, la sua Boîte-en-valise duchampiana, essendo il “Signor Duchamp”, come lei lo chiama, un altro dei suoi numi tutelari.

Dunque Wunderkammer: si tratta di una grande teca (63,5×225×72 cm), contenente tecniche miste in oggetti di recupero, realizzata fra il 2016 e il 2017 e già esposta nell’importante mostra Montezuma Fontana Mirko presso il MAR di Ravenna (2017/2018).
Credo anche possa essere considerata la versione visiva e del tutto personale di Autoritratto nello studio, stupendo testo del filosofo Giorgio Agamben e uno dei libri che ha cementato la nostra amicizia: “Amare, credere in qualcuno o in qualcosa non significa accettare come veri dogmi o dottrine. È, piuttosto, come restare fedeli all’emozione che si è provata guardando da bambini il cielo stellato.”
E quanta infanzia spesso emerge in Sara, nella consapevolezza che questa età dell’oro sia mito irraggiungibile e per questo sempre attuale, una sorta di minotauro temporale che trova equilibrio e concretezza negli spazi dei suoi piccoli lavori – aveva dunque torto Kant a subordinare lo spazio al tempo – in cui il mosaico, idea catartica, risana il vuoto degli oggetti già fatti, molte volte giocattoli ritrovati, riemersi dalla propria come da vite altrui, senza contare che il principio estetico di un esterno povero e un interno sensazionale è il medesimo delle chiese bizantine, all’ombra delle quali è stato educato lo sguardo di Sara.
Metà mosaici e metà parole, metà ready-made metà realizzazioni originali, pensate e manuali, i minotauri che Wunderkammer ospita sono il romanzo poetico della vita di questa artista e passare con gli occhi dall’uno all’altro cercando di cogliere i fili rossi che legano tanti significati mi ha ricordato l’Expédition nocturne autour de ma chambre, piccolo capolavoro letterario di François-Xavier de Maistre: “Je suis encore chez moi, me dis-je avec une véritable satisfaction. Chaque objet me rappelait quelque événement de ma vie, et ma chambre était tapissée de souvenirs. Au lieu de retourner à l’auberge, je pris la résolution de passer la nuit au milieu de mes propriétés” (“Sono ancora a casa mia, mi dissi con grande soddisfazione. Ogni oggetto mi ricordava un avvenimento della mia vita, e la mia camera era tappezzata di ricordi. Anziché tornare in albergo, decisi di passare la notte fra le mie cose”).

L’equilibrio centrale è rappresentato dalle letture di Sara con alcuni fra gli autori a lei più cari: Saffo, Rilke, Goethe, Thomas Mann, Galimberti, Philip Roth, Barthes, Dostoevskij, Plath, Queneau, Conrad, Tanizaki… Forse anche l’ordine e i colori con cui ha disposto queste tessere-libro non sono casuali, dal momento che qui tutto è relazione.
A destra e a sinistra e davanti a questo blocco letterario, come se le parole fossero àncora, faro, spartiacque, altare o, come ricorda il candelabro antistante, “Fuoco centrale” (che a sua volta richiama il titolo di una stupenda antologia di versi di Mariangela Gualtieri), è disposta una moltitudine di opere-labirinto, ad esempio il dittico fotografico “Buon compleanno Sylvia Plath” in cui sul volto della poetessa è presente la silhouette delle mani della Vasini al cui interno è graffiato calligraficamente il nome dell’autrice americana.

Sottostante è appoggiato un pentolino in ceramica, “Latte più”, citazione dell’Arancia meccanica kubrickiana in cui, come nella pellicola, le tessere colorate e impazzite ricordano gli effetti psichedelici della droga aggiunta al bianco puro del latte. Il bianco torna nell’ovale “I want to sleep with you” il cui centro è occupato da due gocce di nero e rosso: si incontreranno mai queste due anime o è solo un sogno, un desiderio di necessità d’amore o già un ricordo? L’amore, del resto, ha differenti modi per manifestarsi: a volte bastano gli occhi teneri di un cane, Alice, in questo caso disegnato da Sara col titolo “Dolce Venere di Rimmel” come la canzone di Francesco De Gregori, autore anche dell’altra celebre canzone, Alice, lo stesso nome del cagnolino. Spostandosi, altri occhi ci guardano all’interno di un astuccio per occhiali: sono quelli della “Santa Lucia” del Polittico Griffoni di Francesco del Cossa, il cui fiore è stato reciso e qui per sempre conservato poiché mutato in mosaico.
Nella parte a sinistra della nostra teca, non a caso vicino ai libri, ecco apparire “Prometeo” ritratto in cui i significati e le metafore si sovrappongono, dalle sillabe in cui c’è un gioco di parole “Pro – Me – o – Te”, al materiale in cui vi è un richiamo alla basilica di San Vitale a Ravenna, essendo fatto di smalti, ovvero tessere depurate dal fuoco (lo stesso fuoco rubato dal Prometeo del mito antico) poiché dovevano rivestire mura sacre, insieme alla madreperla ornamentale degli imperatori bizantini.

Nelle vicinanze sono poste le sei tazzine dette “L’ospite inquietante”, titolo che rimanda a una fonte dechirichiana, ovvero Nietzsche, per ribaltarne il nichilismo: come è nella cifra di Sara, anche queste tazzine trovate in un mercatino racchiudono al loro interno i segreti e la bellezza del mosaico, tutte tranne una. Eppure il vuoto di questo ospite apparentemente inquietante non è tale, addirittura non esiste per Sara che afferma: “L’argento riflette sé stesso, il vuoto è riempito dal sé, come il vuoto del nichilismo non è mai tale, essendo pieno di sé”.
Mi rendo conto ancora una volta che pur avendo già molto scritto, ho dovuto trascurare numerosi oggetti, dai cassetti al cucchiaino, dal ditale ai carillon, sino agli “Acquarelli”, ennesimo omaggio al mondo del mosaico “al contrario” poiché nei cartoni preparatori una volta si usavano le tempere o i pigmenti, non l’acquerello che poteva sbiadire nel tempo. Quindi Sara ha svuotato i contenitori di questi colori precari e li ha resi (quasi) eterni riempiendoli di mosaico.
Come avevo anticipato, tutto il mondo di questa artista è un continuo perdere-ritrovare-mescolare fili di senso e citazioni di ogni arte e frammenti di biografia personale e non, a volte immedesimandosi in panni (femminili) altrui.
A questo proposito, non resta che fare un ultimo riferimento al “graforitratto” che chiude l’estrema sinistra di Wunderkammer ovvero “In Deserto Rosso ero Giuliana”, omaggio al film di Antonioni e al personaggio stupendamente interpretato da Monica Vitti, così sentito da questa artista, sempre fiera del sapore e delle radici femminili delle sue opere. Se mi è concesso un titolo, “Profumo di donna”, dedicato a Sara Vasini.
