Il progetto di mostra soliliquidi, a mia cura e pensato circa un anno fa, inaugura questa sera 19 febbraio 2022 alle ore 17.00 presso la Galleria Comunale “Leonardo da Vinci” di Cesenatico, e vede coinvolti quattro differenti artisti: Paola Babini, Rosetta Berardi, Francesco Bocchini e Federica Giulianini.
Pubblico di seguito il testo critico e qualche immagine. Buona visita.
SOLIDILIQUIDI
di Luca Maggio
“Meglio non muoversi/ è un azzurro subacqueo che ci ravvolge/ (…) schiumano i confini del visibile”. Eugenio Montale, Elegia
Giochiamo. Prendiamo tre donne e un uomo, vite dedicate alla mutazione di elementi (picti, già fatti, raccolti, manipolati, sentiti) in ciò che comunemente è indicato come arte e che poi questa sia, afferma Elsa Morante, essenzialmente il “ricordare” come la cosa stessa, l’opera, “si è vista in uno stato di sogno”, aggiungendo sensi e inedito al mondo, connettendo io e mondo e, specularmente, anche il contrario di quanto detto sinora.
Scelte queste identità affatto differenti tra loro per età, linguaggi, significati – ne elenco burocraticamente i nomi: Babini Paola, Berardi Rosetta, Giulianini Federica e Bocchini Francesco – proviamo a combinare in due piani di spazi espositivi a Cesenatico, nell’ennesimo inverno inverso all’esistenza com’era in memoria sino a due anni fa, qualcosa di degno (dignus, “che conviene, che merita”), quasi necessario a evadere stando fermi, a capire nonostante tutto e almeno in parte ciò che forse è solo intuibile, le verità nascoste, se questa espressione non fosse già usata e un filo presuntuosa. Eppure, proviamo.
A vedere in sequenza i prodotti di quelle otto mani si è tentati di trovare un tema comune, quello naturale, arboreo. E natura c’è. Ma non basta. Oltre, va rimediato un oltre.
Anche per scriverci, per usare questa convenzione e combinazione astratta di simboli grafosonori detti lettere che state leggendo, bisogna sentire il sapore di quelle tele, carte, acetati, metalli, pigmenti, passarci sopra e assieme lingua e occhi. Del resto l’aristotelico theoria viene dal verbo “theorein, che in greco fa riferimento all’atto di guardare, osservare qualcosa” (Irene Vallejo, Papyrus. L’infinito in un giunco), ovvero farne esperienza.
Questa tetraktys pitagorica – i quattro artisti qui coinvolti – evoca reminiscenze ippocratiche e presocratiche: la teoria degli umori, insomma. I quattro elementi (acqua, aria, fuoco, terra) e soprattutto le rispondenze più che fisiologiche (testa, cuore, fegato, milza), in termini di proprietà specifiche (freddo, umido, caldo, secco) con le quali ognuna di queste quattro persone in-forma i propri lavori, mescendole talvolta in coppia, talaltra azzardandone ossimori.
I paesaggi naturali e liquidi della Babini, in cui leitmotiv di verdiblu tornano negli anni insieme a ventagli di tonalità spesso tendenti all’umido-freddo anche quando virano verso rossi intensi e gialliocra carichi comunque di sedimenti e sentimenti umbratili, sono dati da stratificazioni di acetati che fanno coesistere più piani temporali, così annullando il senso stesso del tempo in una dimensione di metasogno e metacoscienza non solo personale. Come ricorda Carlo Rovelli ne L’ordine del tempo, fulminante fu la scoperta einsteiniana per cui “l’idea che esista un adesso ben definito ovunque nell’universo è quindi un’illusione, un’estrapolazione illegittima della nostra esperienza. È come il punto dove un arcobaleno tocca la foresta: ci sembra di intravederlo, ma se andiamo a guardare non c’è. (…) Il “presente dell’universo” non significa nulla.”
A prima vista le scene di Paola si mostrano immobili, come se nulla accada, almeno non in senso cronologico-orizzontale. In esse, in verità, tutto coesiste, a partire da ciò che nel tempo si forma e poi scava e risale. In esse ci si immerge e si traversano percorsi interni al sé, a un inconscio individuale e collettivo, solcato talvolta dal suo segno nero che traccia indicazioni, linee, appunti di profili naturali o antropici, anche sui rari edifici umani – chiostri, finestre, frammenti di templi e sculture antiche o semplici casolari di campagna – che emergono per trovarsi immediatamente inghiottiti dal magma cromatico delle sovrapposizioni.
Queste, a volta loro, paiono colare e trattenersi in viscosità per poi chiarirsi, ferme finalmente e evaporanti al contempo, comunque dipinte, sulle superfici della Giulianini, che monta scene orizzontaliverticali del mito, di un tempo dunque da intendersi contemporaneo poiché una volta ancora del mai e di sempre: “Abitavano questi luoghi Fauni indigeni e Ninfe/forti creature nate da tronchi di duro rovere”, canta Virgilio nell’Eneide.
E continuano quelle creature a abitare quei boschi finché natura sarà, mentre Federica dà loro voce nell’oggi su carte, tele, leporelli con tecniche miste di paradossi, accostamenti e simbologie anche cromatiche attuando conoscenze e coscienze di pigmenti selezionati, quasi distillati maniacalmente per apparire in forma di rocce, acque, ombre animali e antropomorfe, mai chiarite sino in fondo mai indistinte del tutto, miti appunto, in cui l’insieme avvalora l’idea dell’umido – e da Leonardo a Bellotto quanti pennelli hanno corso. Ma, a ben vedere, i singoli elementi naturali che ne costituiscono l’architettura sono definiti da contorni netti, se non secchi, quasi squadrati in taluni casi, segnati da matita, specie i grandi segmenti di macchie larghe, attente, lavorate al loro interno per variazioni e climax di colori sfumanti per intensità crescenti o attenuate come, del resto, le sagome vegetali-animali-umane, “dolci apocalissi” di misteri post-metafisici (cosa o chi attendono nelle chiarità delle loro cellule bucoliche non prive di certi gradi di inquietudine? Figure come sospese fra il Prélude à l’aprés-midi d’un Faune di Debussy e l’Aquarium di Saint-Saëns) sono compiute in forza di grazia luminosa e pioggia di trasparenze aeree gialloverdi, bluazzurre, perlaceorosate e cenni di grigi impercettibilmente candenti.
Proprio questi ultimi quasi evanescenti veli sono a depositarsi e assumere lucori e consistenza metallica e peso dell’Ulûm di Bocchini, ovvero il grande albero atterrato il cui nome è forse collegabile a un suffisso latino, sebbene possa rammentare anche lacerti e masticazioni di vocaboli direttamente provenienti dalle solitudini dei post-mondi beckettiani.
A me pare che Francesco ami entrare-uscire dai significati e significanti delle cose, usando cortocircuiti (dada, post-dada? Poco importano le etichette…) per principio: siamo di fronte a un albero, solido sì, ma abbattuto, non troncato, nato così e privo di radici effettive (non affettive), e non in legno, bensì ferroso, manu-fatto artistico. Niente foglie, ancorché le estremità terminino in ventagli di pistilli. Dai rami di un lavoro così ponderoso e concreto pendono invece fili cui sono legati e fluttuanti cartellini che riportano parole come “rosso, spia, orco, Zeus, mucca, sole, fuoco, rana, remo, ecc.”. Ognuna, aggettivo o sostantivo che sia, è indicazione di montaggio per il ramo cui è collegata: dunque l’opera finita, in questa sorta di metalinguaggio autorappresentativo, si compone anche delle proprie istruzioni per l’uso. Confesso che l’idea di un metatesto – la pagina che stai leggendo, lettore – viene da quei foglietti, dalla meditazione sull’esibizione della loro funzione. E altre suggestioni, analogie affiorano: come non è possibile leggere in un unico sguardo tutte quelle parole-bussola, così i cento occhi del mostro Argo mai erano tutti aperti-chiusi in una volta sola. Non solo: si trovavano ovunque diffusi sul corpo della creatura: a proposito, nel regno vegetale i fotorecettori sono per la maggior parte nelle foglie, ma ne sono ugualmente provvisti sebbene in minor quantità “le parti più giovani dello stelo, i viticci, i germogli, gli apici vegetativi e persino il legno (quello che generalmente definiamo “verde” e che non è molto adatto per essere bruciato). (…) È come se tutta la pianta fosse coperta da piccolissimi occhi”, argomentano Stefano Mancuso e Alessandra Viola in Verde brillante. È necessario avvicinarsi per leggere queste scritte come anche le altre sulle carte A cosa pensi, quando pensi? e Nel preconcetto di essere quello che non si è, dove testi fotografici, essendo mangiati dal tempo e da una pittura fra rosaocra e bianchi dilavati, vedono acuito il segreto della loro rap-presentazione.
Al termine della ruota degli umori, al polo opposto anche cromatico dell’acquea Babini, decisamente negli ambiti del secco e del caldo si pone l’opera di Rosetta Berardi. Una decina di anni fa fu distrutta una pineta ravennate da un devastante incendio doloso. Le lacrime di quell’evento doloroso sono qui raccolte, nette, realmente nero su bianco attraverso le impronte accusatorie delle decine di carte dell’installazione Archivio che non sembrano lasciare scampo al loro stesso essere testimonianza e elenco boltanskiano di vite bruciate: “Ho appreso (…) come dure pagine di scrittura cuneiforme / il dolore traccia sulle guance.”, scrive Anna Achmatova nel suo Requiem. Vedere quegli scheletri di tronchi e rami carbonizzati stagliarsi sul fondo bianco graffia tuttora con violenza lo sguardo. Così come nella scultura Natura morta un praticello di aghi secchi, senza più possibilità di vita, spunta o s’incunea immobile in una sezione-zolla di pino ormai tagliato.
Questo epicedio pare continuare sulle tele della serie Noi eravamo pini, ma all’aumento della superficie, come un’ombra appare dietro i rami, quasi un’aura, un alito fumante di voce non del tutto consunta: “Sono alberi assetati,/chiome imploranti,/che salgono la collina,/ dietro l’ultima bellezza, e l’uragano le strappa,/(…) Sono alberi che cercano,/ in solitudine e vento,/ quello che cerchi tu. Fuggi,/ nero viandante!”. Forse ancora possiedono, come il Pier delle Vigne dantesco o il Polidoro virgiliano, la forza di pronunciare questi versi di Dámaso Alonso, mentre le tele notturne sembrano esserne il negativo fotografico: alberi bianchi su fondo nero, fantasmi luminescenti o anime dei precedenti, non più spogli ma attorniati da fronde verdi scure: nonostante il buio apparente, la vita è tornata, ha trovato un varco e la pittura, assunti contorni meno definitivi e secchi, può ricongiungersi in ciclo alle umidità iniziali da cui eravamo partiti qualche riga fa dando partenza al gioco che va qui a chiudersi.
Nella foresta di Fishlake in Utah, esiste un bosco di pioppi tremuli americani di ben 43 ettari di estensione: sono oltre quarantacinquemila alberi ma, avendo identico patrimonio genetico e essendosi generati pollone dopo pollone, possono essere considerati un unico organismo vivente, fra i più imponenti e maestosi del pianeta. Scrive Andrea Zanzotto in Meteo: “Non si sa quanto verde/ sia sepolto sotto questo verde/ né quanta pioggia sotto questa pioggia/ molti sono gli infiniti/ che qui convergono”.