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Archive for the ‘cristianesimo’ Category

Con questa premessa desidero ringraziare Elisa Simoni e il co-curatore Giovanni Gardini,  per la bella esperienza di questa mostra visitabile gratuitamente dal 6 ottobre al 24 novembre 2019 presso la Chiesa di Santa Eufemia a Ravenna.

L’evento è inserito nella programmazione della Biennale del Mosaico 2019.

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Elisa Simoni, La scelta dei dodici, 2019

Elisa Simoni. La scelta dei dodici (abstract dal catalogo)

di Luca Maggio

“In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” Vangelo di Giovanni 1,4

L’opera che stai osservando non è nell’intenzione dell’autrice, Elisa Simoni, solo un insieme di oggetti aventi relazione fra loro in una installazione comune. È una preghiera meditata negli anni. Che trova ora compimento.

(…) Dodici cubi-tessere di marmo. E dodici dischi arrugginiti in ognuno di essi. Del tredicesimo, unico completamente dorato sopra un supporto trasparente, dirò oltre. Anche se, come avrai intuito, rappresentano gli apostoli e il loro maestro, Yehoshua ben Yosef, Gesù. Per loro, da un certo punto in poi, egli è più di un rabbī, guida spirituale, è il Figlio di Dio, colui che li ha chiamati, chiedendo loro di aderire a un messaggio d’amore inedito, scegliendo di scegliere ciò che ragione sconsiglierebbe, radicalmente cambiando le proprie vite senza possibilità di ritorno: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). E ancora, dalla Prima lettera giovannea: “Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui” (1 Gv 4,16), laddove il vocabolo italiano amore traduce il greco evangelico agápē – non il sensuale érōs, non l’amicale philía -, che ha valenza spirituale.

Elisa Simoni, La scelta dei dodici (particolare), 2019

Torniamo agli oggetti. Il marmo per Elisa rappresenta un ritorno alle radici del mosaico e al suo personale amore per questo materiale così naturale, semplice da un certo punto di vista, come gli apostoli che certo non erano persone dotte, benché seducente nella diversità delle sue cromie: ecco dal bianco al marrone il travertino romano, il rosa Portogallo, il giallo Persia, il bianco greco, il verde Guatemala, il rosso Alicante, spaziando da marmi più duri a altri più morbidi, secondo il temperamento di questi “inviati” di Dio.

Elisa Simoni, Reperto di luce
Elisa Simoni, Reperto di luce

Ora avvicinati. Guarda dentro ognuno dei cubi: c’è una lesione, una ferita. Si vede appena, ma è profonda. Marcata dalla foglia d’oro. È la Parola di Cristo affondata tra le pareti del cuore di questi corpi di roccia. È in tutti, anche in Giuda. In essa si radica la lama tonda che una volta serviva a tagliare il marmo e che oggi funge da testa di questi apostoli. Come la carne, anche questo metallo si consuma, si arrugginisce, cambia nel tempo e Elisa ha scelto di non trattarlo, di non proteggerlo dal suo degradarsi naturale. La ruggine procede. Quasi una decina di anni fa, aveva sperimentato qualcosa di analogo in una serie di lavori – Conversione, Correggimi, La ferita dell’amore, etc. – sempre con ferri, lamiere arrugginite, solcate all’interno da mosaici d’oro seminascosti.

Elisa Simoni, Correggimi
Elisa Simoni, Correggimi

A proposito, qui, alla base di undici di questi dischi, puoi vedere come cominci a salire l’oro eterno del Verbo: “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Salmi 119,105) e, quasi nascoste, emergono alcune lettere, quelle dei nomi con cui Lui ha chiamato i suoi, voce incancellabile che ha ridefinito le loro identità.

Un giorno l’oro coprirà la superficie intera, anche la ruggine: “e tutti furono colmati di Spirito Santo” (At 2,4), come viene ripetuto costantemente negli Atti degli Apostoli, poiché “la moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola” (At 4,32). Del resto “il Paraclito resta un dono sempre futuro: ciò che è vero di tutta la rivelazione cristiana.”[1]

Elisa Simoni, La scelta dei dodici (particolare), 2019

È la scelta di quasi tutti gli apostoli. Non di Giuda. Del suo mistero. In cui la luce non ascende. Qui “l’anima semplicetta che sa nulla” di cui parla Marco Lombardo nel Purgatorio dantesco (XVI, 88) sul senso del libero arbitrio, non si dà scampo. Né si perdona. Annullandosi.

La ferita che sale è invece santa per la Simoni. È segno. E signum è “ricollegabile alla radice del verbo seco, “taglio”. È – secondo tale etimologia – un’incisione, una tacca, un marchio. Il signum si aggiunge alla superficie del reale come una ferita.”[2]

Ferita santa dunque: qualcosa che ha sconvolto le vite che ne hanno fatto esperienza, ponendole di fronte a un bivio definitivo. (…)

Elisa Simoni, La scelta dei dodici, 2019

Ora osserva la luce che in questo spazio colpisce l’oro che hai di fronte, centimetro per centimetro, e ne accresce l’effetto, come migliaia di lucciole che intermittenti si rispondono nel fitto di un bosco al principio di una notte d’estate. Ma la rivoluzione per autenticarsi e accadere non può contentarsi di un bagno di luce sulla pelle delle cose, dell’umano. È dentro che tutto si genera e può, se accolto, fiorire, fuoriuscire. Come testimoniano culture differenti da quella cristiana, per esempio il pagano Seneca: “Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te.”[3] O il Neiye taoista: “Dentro il cuore un altro cuore racchiudi, dentro il cuore un altro cuore è presente. Questo cuore dentro il cuore è pensiero che precede le parole.”[4]

Giunti alla fine, ti saluto fidando in una considerazione ultima: la scelta dei dodici fu lucis vulnus, ferita di luce. È vulnus et lux, ferita e luce.

Elisa Simoni, La scelta dei dodici (particolare), 2019

Ps. Per volontà dell’artista, le opere al termine della mostra saranno messe in vendita al costo minimo di euro 100 l’una e l’intero ricavato sarà devoluto per finanziare i lavori di restauro della Chiesa di Santa Maria in Porto a Ravenna. Per ulteriori informazioni e prenotazioni rivolgersi a Padre Luca 0544212055.


[1] P. Citati, I Vangeli, Mondadori, Milano 2014, p. 152.

[2] N. Gardini, Le 10 parole latine che raccontano il nostro mondo, Gedi, Roma 2019, p.37.

[3] Seneca, Lettere a Lucilio, IV, 41, Fabbri, Milano 1996, p.80.

[4] Neiye. Il Tao dell’armonia interiore, 14, 14-17, a cura di A. Crisma, Garzanti, Milano 2015, p.137.

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umanisti-italiani

Giovedì 23 febbraio è stato presentato presso la Biblioteca Classense di Ravenna un volume molto importante per gli studi attuali e futuri sull’argomento: “Umanisti italiani. Pensiero e destino” (Einaudi, 2016).

I due autori, Massimo Cacciari, che ha firmato il saggio di apertura, e Raphael Ebgi, che ha curato i testi, ovvero l’antologia in cui sono leggibili anche pagine sinora inedite, hanno spiegato come la visione corrente del Quattrocento, tutta grazia e armonia, sia radicalmente da ribaltare, poiché lo spirito che abitava gli intellettuali umanisti era di piena consapevolezza della crisi già in corso nel loro tempo e che esploderà con ferocia definitiva nel Cinquecento, tra guerre, invasioni, riforme e controriforme. Ma il senso di questa tragicità della storia umana è già propria del secolo umanista che nel pieno smarrimento dei due capisaldi medievali (l’impero in sostanza assente e il papato diviso durante lo Scisma d’Occidente addirittura fra tre contendenti, romano, pisano e francese) non a caso si apre col rogo del riformatore boemo Jan Hus, per chiudersi con l’altro rogo, stavolta fiorentino, del Savonarola, passando per il grande shock della caduta di Costantinopoli (1453), assediata dai turchi di Maometto II.

Agli umanisti non resta che tentare l’impossibile, la quadratura del cerchio, conciliare gli opposti, dalla filosofia platonica con l’aristotelica, alla classicità (non vissuta come erudizione vuota ma come modello) col cristianesimo, scartando però il dogmatismo della Scolastica medievale e preferendo alle regole l’esperienza francescana (sì, il semieretico Francesco torna ad essere il santo di riferimento), senza scordarsi della mistica ebraica, la cabala tanto cara agli studi di Pico della Mirandola, arrivando addirittura a proporre da parte del pontefice Pio II la conversione del sultano Maometto II (potenziale guida temporale e autorevole anche per l’Occidente?).

Insomma, la tensione che animava i dibattiti e le posizioni dei protagonisti di questa stagione straordinaria della storia occidentale (e come non citare le due colonne teoretiche massime del Quattrocento tutto, Nicola Cusano e Leon Battista Alberti) era evidente.

In finale di battuta, ho domandato a Cacciari se nonostante tale certezza della crisi, si possano considerare gli umanisti come intellettuali che hanno conservato fiducia nelle capacità dell’uomo, proprio a partire dal desiderio utopico di concordare posizioni altrimenti inconciliabili. Questa la risposta: “Certo, ma tenendo presente che la tensione intellettuale e spirituale è dovuta anche alla coscienza del rischio che l’uomo corre di divenire, proprio per sua natura, superiore all’angelo o peggiore delle bestie. Sulla nave dei folli di Bosch è imbarcata l’intera umanità.”

umanisti-italiani-ravenna

 

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Raffaello Sanzio, Leone X con i cardinali Giulio de' Medici e Luigi de' Rossi, 1518 ca., Galleria degli Uffizi, Firenze

VI. È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura: e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione.

XXVIII. Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e le mollizie de’ preti: sì perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sì perché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dependente da Dio, e ancora perché sono vizi sì contrari che non possono stare insieme se non in uno subietto molto strano. Nondimeno el grado che ho avuto con piú pontefici, m’ha necessitato a amare per el particulare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, arei amato Martino Luther quanto me medesimo, non per liberarmi dalle legge indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa communemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti, cioè a restare o sanza vizi o sanza autorità.

CLXIV. La buona fortuna degli uomini è spesso el maggiore inimico che abbino, perché gli fa diventare spesso cattivi, leggieri, insolenti; però è maggiore paragone di uno uomo el resistere a questa che alle avversità.

Francesco Guicciardini (Firenze, 1483 – Arcetri, 1540), dai Ricordi, 1512-1530.

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Piazzetta degli Ariani a Ravenna: in primo piano il battistero degli Ariani, poi il muro -“casa di Drogdone” e sullo sfondo parte del portico della chiesa dello Spirito Santo

Nel Liber Pontificalis dello storico ed ecclesiastico ravennate Andrea Agnello (IX secolo), si legge che la casa di Drocdone è situata nell’antico quartiere ariano di Ravenna non lontano dalla chiesa di S. Teodoro, ovvero l’attuale chiesa dello Spirito Santo, originariamente cattedrale ariana dell’Aghia Anastasis (Santa Resurrezione) o Anastasis gothorum (Resurrezioni dei goti, ovvero gli ostrogoti di re Teoderico), e dunque vicino all’ex battistero ariano, divenuto in seguito alla vittoria bizantina (540 d.C.) chiesa cattolica col nome di S. Maria Ornata o in Cosmedin. Tale abitazione, riferisce sempre Agnello, faceva parte dell’oggi scomparso episcopio ariano, con tanto di cappella dedicata a S. Apollinare costruita nella sua parte superiore, specularmente al complesso cattolico tuttora esistente e visitabile nella zona opposta della città e comprendente cattedrale, battistero ed episcopio, al cui interno è la meravigliosa cappella di S. Andrea.

Parte superiore del muro -“casa di Drogdone”, Ravenna

Ora, cosa effettivamente sia rimasto di longobardo, o meglio di ariano nell’unico muro superstite tuttora indicato come casa di Drogdone, appunto, fra la chiesa dello Spirito Santo e il battistero degli Ariani, è difficile dire: già nel 1923 nella sua Guida di Ravenna Corrado Ricci (che, va ricordato, pur scrivendo in buona fede, in quanto ad attendibilità e precisione va spesso preso con la dovuta cautela) indicava come unica parte originale la zona bassa dell’alzato fino a1,7 m, per il resto trattandosi di modifiche successive avvenute sin dall’alto medioevo, quando ad esempio intorno al X secolo questo e gli altri edifici connessi passarono ai basiliani prima, ai benedettini poi e infine, dal ‘600, ai teatini (fu anche costruito l’oratorio della Croce nel 1708 a ridosso dell’adiacente battistero che funse così da abside), fino ai “recenti ristauri” di inizio ‘900 curati da Giuseppe Gerola. Senza poi contare le demolizioni belliche e post belliche che consegnano nelle condizioni attuali questo quartiere e questa parete in particolare, oggi non più collegata al battistero e alla cui sommità sono tre timpani murati, ornati da tre croci a bracci uguali e tre formelle marmoree antiche su sei, forse, sempre stando al Ricci, d’influenza veneziano-bizantina e databili fra X e XII secolo.

Muro -“casa di Drogdone”, Ravenna: particolare del timpano centrale con croce e due formelle

Di certo resta però l’indicazione precisa del sito: lì visse Drogdone. Già, ma chi era costui?

La fonte principale in questo caso è la ricchissima Historia Langobardorum di Paolo Diacono (VIII sec.), dove ai paragrafi 18 e 19 del libro terzo si narra che ai tempi di re Autari (fine VI secolo), il duca d’origine sveva Droctulfo, forse figlio di prigionieri di guerra o addirittura egli stesso prigioniero in gioventù ma tanto valente da guadagnarsi onore e il massimo titolo presso i Longobardi, suo nuovo popolo, da cui a un certo punto, forse per vendicarsi della prigionia patita o per dissidi col sovrano, si staccò tornando ad essergli nemico e, da Brescello sul Po dov’era arroccato, passò dalla parte dell’imperatore d’oriente, ovvero andò a difendere Ravenna e Classe dagli attacchi dei suoi ex sodali uscendone vincitore. Per tali meriti i ravennati posero le sue ossa, come da lui richiesto, nell’insigne basilica di S. Vitale (il che farebbe supporre anche una sua conversione religiosa), con un epitaffio commovente, riportato per intero dal Diacono: pare fosse terribilis visu facies, sed mente benignus, “terribile d’aspetto, ma benigno d’animo e con una lunga barba sul cuore coraggioso./ Poiché amava i pubblici segni di Roma,/ fu sterminatore della sua stessa gente./ Trascurò i suoi cari genitori, mentre amò noi,/ ritenendo che questa fosse, o Ravenna, la sua patria”.

Che spiegazione dare ad una tale radicale presa di posizione? Il grande cieco veggente della letteratura del ‘900, Jorge Luis Borges, avanza un’ipotesi lirica e plausibile a un tempo nella bella pagina dedicata a questo personaggio nel L’Aleph (1952), in particolare nel racconto Storia del guerriero e della prigioniera: “Immaginiamo, sub specie aeternitatis, Droctulf, non l’individuo Droctulf, che indubbiamente fu unico e insondabile (tutti gli individui lo sono), ma il tipo generico che di lui e di molti altri come lui ha fatto la tradizione, che è opera dell’oblio e della memoria. Attraverso un’oscura geografia di selve e paludi, le guerre lo portarono in Italia, dalle rive del Danubio e dell’Elba; forse non sapeva che andava al Sud e che guerreggiava contro il nome romano.

Forse professava l’arianesimo, che sostiene che la gloria del Figlio è un riflesso della gloria del Padre, ma è più verosimile immaginarlo devoto della Terra, di Hertha, il cui simulacro velato andava di capanna in capanna su un carro tirato da vacche, o degli dèi della guerra e del tuono, che erano rozze immagini di legno, avvolte in stoffe e cariche di monete e cerchi di metallo. Veniva dalle selve inestricabili del cinghiale e dell’uro; era bianco, coraggioso, innocente, crudele, leale al suo capo e alla sua tribù, non all’universo. Le guerre lo portano a Ravenna e là vede qualcosa che non ha mai vista, o che non ha vista pienamente. Vede il giorno e i cipressi e il marmo. Vede un insieme che è molteplice senza disordine; vede una città, un organismo fatto di statue, di templi, di giardini, di case, di gradini, di vasi, di capitelli, di spazi regolari e aperti. Nessuna di queste opere, è vero, lo impressiona per la sua bellezza; lo toccano come oggi si toccherebbe un meccanismo complesso, il cui fine ignoriamo, ma nel cui disegno si scorgesse un’intelligenza immortale.

Forse gli basta vedere un solo arco, con un’incomprensibile iscrizione in eterne lettere romane. Bruscamente, lo acceca e lo trasforma questa rivelazione: la Città. Sa che in essa egli sarà un cane, un bambino, e che non potrà mai capirla, ma sa anche ch’essa vale più dei suoi dèi e della fede giurata e di tutte le paludi di Germania. Droctulf abbandona i suoi e combatte per Ravenna. Muore, e sulla sua tomba incidono parole che non avrebbe mai comprese:

Contempsit caros, dum nos amat ille, parentes,

hanc patriam reputans esse, Ravenna, suam.

Non fu un traditore (i traditori non sogliono ispirare epitaffi pietosi), fu un illuminato, un convertito. Alcune generazioni più tardi, i longobardi che avevano accusato il disertore, procedettero come lui; si fecero italiani, lombardi, e forse qualcuno del loro sangue – un Aldiger – generò i progenitori dell’Alighieri… Molte congetture è dato applicare all’atto di Droctulf; la mia è la più spiccia; se non è vera come fatto, lo sarà come simbolo.”

Ravenna, muro -“casa di Drogdone” e, ormai disgiunto, il battistero degli Ariani oggi

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Francesco Hayez, Ritratto (postumo) di Cavour, 1864, Pinacoteca di Brera, Milano

Non so quante decine di saggi storici e biografie siano state dedicate nel tempo a Camillo Benso conte di Cavour (1810-1961) e meritatamente, essendo uno dei protagonisti indiscussi e, mi permetto di aggiungere, positivi del nostro Risorgimento, che senza la sua figura e lungimiranza, il suo genio liberale (anche cinico e spregiudicato alla bisogna, opposto e complementare perfetto del guerriero idealista Garibaldi) e politico (forse il più grande e non solo degli ultimi 150 anni), non sarebbe stato possibile.

Il monumento tuttora insuperato per ricchezza, ampiezza e obbiettività d’indagine dedicato a questo grande resta l’opera di Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo, tre volumi in quattro tomi editi fra il 1969 e il 1984 dalla Laterza di Bari, “opera-vita”, come giustamente è stata definita, data la mole, il periodo di tempo impiegato per la ricerca, la redazione e la pubblicazione integrale. Purtroppo da anni non è più edita e pressoché introvabile anche nelle librerie antiquarie: essendo originariamente stata pensata per il centenario dell’unità d’Italia del 1961 (anche se, come detto, il primo volume vide la luce solo otto anni dopo), sarebbe un bel segno e, credo, un’occasione unica se venisse riproposta prima dello scadere di quest’anno.

Infine, a proposito di riedizioni cavouriane, segnalo un piccolo gioiello dimenticato del ’71 e ristampato l’anno scorso dall’editore Donzelli, i Discorsi per Roma capitale (Roma, 2010), col bellissimo saggio introduttivo di Pietro Scoppola: appena proclamato il Regno d’Italia, Cavour, da vero statista europeo quale era, pensa al futuro, al completamento dell’opera, ovvero a Roma capitale con le difficoltà relative e certo non indolori rispetto al porre termine al potere temporale dei papi.

Il libro riporta tre suoi interventi fatti in qualità di Presidente del Consiglio alla Camera e al Senato fra la fine del marzo e l’inizio dell’aprile 1861. Due mesi dopo, il 6 giugno, moriva.

Rimane a persuadere il pontefice che la Chiesa può essere indipendente, perdendo il potere temporale. Ma qui mi pare che, quando noi ci presentiamo al pontefice, e gli diciamo: santo padre, il potere temporale per voi non è più garanzia d’indipendenza; rinunziate ad esso, e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche; di questa libertà voi avete cercato strapparne alcune porzioni per mezzo di concordati, con cui voi, o santo padre, eravate costretto a concedere in compenso dei privilegi, anzi peggio che dei privilegi, a concedere l’uso delle armi spirituali alle potenze temporali che vi accordavano un po’ di libertà; ebbene, quello che voi non avete mai potuto ottenere da quelle potenze, che si vantavano di essere i vostri alleati e vostri figli divoti, noi veniamo ad offrirvelo in tutta la sua pienezza; noi siamo pronti a proclamare nell’Italia questo gran principio: libera Chiesa in libero Stato.

Camillo Benso di Cavour, dal Discorso del 27 marzo 1861 alla Camera dei deputati in Discorsi per Roma capitale (Roma, 2010)

Fondazione Cavour

Associazione Amici della Fondazione Camillo Benso di Cavour

 

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