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Archive for ottobre 2012

Claudia Rogge, Inferno I, 2011

Dice (il Gran Khan): – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.

E Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio. Italo Calvino, Le città invisibili, 1972

 

A Mosca, nei quartieri artistici Winzavod e Art Play, si possono trovare nuove e interessanti proposte di ogni settore della creatività.

Ed è stata una bella sorpresa a Winzavod, presso la Frolov Gallery, trovare EverAfter l’ultimo lavoro che la fotografa tedesca Claudia Rogge ha dedicato alla Commedia di Dante Alighieri.

Quando si affronta un capolavoro noto e con una lunga tradizione di altre traduzioni in immagine, il rischio della banalizzazione è davvero molto concreto. Ma l’artista non è caduta nella trappola e ha parlato di sé, anzitutto della propria analisi costante di individuo e massa umana, usando l’opera del poeta medievale.

Rogge ha costruito pazientemente ogni frammento di immagine rimontando digitalmente il puzzle con tutti gli altri, in modo da formare un insieme coerente e pittorico: quei corpi possono essere visti nei loro tormenti e nella loro estasi sia come singoli blocchi se l’occhio si concentra su un particolare, sia come scene intere se per un attimo ci si distanzia o si vedono questi grandissimi quadri da un’altra prospettiva, dall’alto in basso ad esempio.

Claudia Rogge, Purgatory IV, 2011

Lavoro finissimo di orchestrazione dello spazio, dunque, e coltissimo, poiché non a caso ogni immagine dei tre mondi ultraterreni finisce o col disegnare una cuspide triangolare, come nelle geometrie compositive rinascimentali, o in tre vertici, a ricordare le tre croci del Golgota, altro riferimento alla pittura religiosa antica.

A parte un paio di scene solo in catalogo dove sono presenti anche corpi invecchiati, flaccidi, più consoni alla visione di Dante e del suo tempo, tutte le altre vedono protagonisti corpi giovani, statuari, bellissimi, maschili e femminili, a dimostrazione del fatto che la riflessione dell’artista è generale sulla condizione del bene e del male in un ipotetico aldilà (qui reale in quanto artistico-letterario) e su un’ideale umano possibile come negli affreschi michelangioleschi e prima ancora come nel Giudizio Universale del Signorelli a Orvieto (1499-1502), il cui rimando e riferimento visivo pare abbastanza esplicito per certi particolari.

In realtà, la Rogge non ha in mente un solo quadro o una determinata citazione, ma se le scene infernali e purgatoriali paiono più direttamente riferirsi al dettato dantesco col crescendo di oscurità e tensione alla luce delle due cantiche corrispondenti, il vero scarto dal poema si ha col Paradiso, luogo sublime della contemplazione sì, ma anche dell’amore e dell’amor carnale in particolare (del resto quale piacere fisico è più forte e più umanamente comprensibile di questo? E lo aveva perfettamente presente anche Bernini con le sue Ludovica Albertoni e Santa Teresa): si tratta non di mistica medievale ma di “lusso, calma e voluttà” pagane, classiche e rinascimentali insieme (si vedano i Baccanali di Tiziano dipinti per gli Este) con un tocco di contemporaneo per cui in quest’orgia sublime e luminosa (come nella piazza di Grasse del Profumo di Süskind) non è più scandalo che due donne o due uomini si scambino baci e carezze: è il Paradiso, è finalmente il Paradiso.

Frolov Gallery – Moscow

www.claudia-rogge.de

Claudia Rogge, Paradise IV, 2011

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Eduardo Chillida, Elogio del Horizonte, Gijón, 1990

Lotto con le cose, forse più che per conoscerle, per sapere perché non le posso conoscere. Cioè per conoscermi. (E. Chillida) 

Senza dubbio uno dei più grandi scultori del secolo appena trascorso, Eduardo Chillida (San Sebastián, 1924-2002), un genio dei Paesi Baschi, solitario e atemporale che ha fatto lavorare la propria mente e pensare le proprie mani in dialogo continuo, anzi in relazione stretta alla res di volta in volta incontrata, per liberarne nel silenzio ogni potenzialità d’essenza sempre in rapporto al circostante. E numerose, infatti, sono state le sue opere per spazi pubblici, aperti possibilmente all’incanto della natura, come fossero visioni in positivo di un Friedrich moderno (e altrettante domande fra trascendenza e metafisica seminate per il mondo): capire l’architettura del cosmo-caos naturale e lì aggiungere una forma distillata di architettura mentale, a chiudere il cerchio perfetto, ritrovato, di uomo e natura (all’ombra di un dio alla fine possibile, foss’anche intuito). Chillida, non a caso, era imbevuto di Bach.

Lo spazio è l’elemento più vivo di tutto quel che ci circonda. È come uno spirito. (E. Chillida)

Chissà quanto ha contato nella sua pratica e capacità d’osservazione (cos’è l’ampiezza e cos’è il mondo? E come contribuire ad esso?) l’esperienza calcistica iniziale come portiere della Real Sociedad basca.

A ciò si aggiunga la formazione di studi in architettura e l’apprendistato scultoreo a Parigi (e il primo amore per la scultura greca arcaica scoperta al Louvre). Poi, già nei primi anni’50, l’incontro che diverrà consapevolezza, con la materia-energia-sostanza d’elezione, il ferro (sebbene abbia anche lavorato con cemento, legno, gesso, alabastro), il sale della terra[1] che si ossida con acqua e aria, poiché il tempo vive in esso, su di esso, sino a mangiarselo, anche, come se un’idea fosse di carne viva e subisse le trasformazioni cui un corpo è normalmente soggetto.

Eduardo Chillida, Peines del viento, San Sebastian, 1977

Le sue strutture “a pettine” e non, sono sì ricerca pensata di forme pure e dialogo (moto e musica) interno di linee curve e rette ma, al contempo, ragionamento sulla possibilità di includere una piccola porzione di realtà in uno spazio (come detto, la vocazione architettonica è una costante in Chillida) in apparenza ristretto, lasciato nei fatti aperto, affinché l’ossatura e la sua interruzione, mai brusca sempre armonica, liberi il vuoto interno in un volo-scambio senza fine e sempre aperto con l’esterno, in un flusso costante d’energia, e dunque, in sintesi, per delineare Lo spazio e il (suo) limite (ma limite come forza), titolo della bellissima raccolta di scritti e conversazioni dell’artista pubblicata da Christian Marinotti Edizioni (Milano 2010)posso operare in campi molto diversi, ma quel che ha affinità con l’arte, quel che hanno in comune tutte le arti, è che sono costrette a presentare due componenti che contemporaneamente non possono mancare: la poesia – è necessario che esista la poesia – e la costruzione. In caso contrario non si dà arte. (E. Chillida)


[1] Il nucleo interno del pianeta, solido per l’altissima pressione, è ferroso e probabilmente in stato cristallino.

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Dino Campana (Marradi, 1875 – Castel Pulci, Firenze, 1932)

Come ogni anno da quarantanove a questa parte, durante le domeniche di ottobre a Marradi si svolge la Sagra delle Castagne, in cui il gustoso frutto invernale si può trovare preparato in ogni modo possibile (specie in forma di dolci), un po’ come i gamberi del buon Bubba in Forrest Gump.

Marradi è un paesino dell’Appennino tosco-emiliano, provincia di Firenze, e ha dato i natali ad uno dei poeti più grandi e disgraziati del ‘900 italiano: Dino Campana (1885-1932).

Venendo dalla stazione, prima di traversare il ponte sul Lamone e entrare nel centro cittadino vero e proprio, si incontra la casa dei Campana ancora di proprietà degli eredi, le figlie e i nipoti del fratello di Dino, Manlio. È facile immaginare il poeta in quell’abitazione mentre corregge con furia o scrive con altrettanta passione alcune delle sue pagine più belle.

Casa Campana a Marradi (FI)

Una delle due lapidi commemorative sulla facciata di Casa Campana a Marradi

La seconda lapide commemorativa coi versi del poeta sulla facciata di Casa Campana a Marradi

A questo proposito, è nota la vicenda del suo celebre e sfortunato libro di versi e prose liriche, Canti orfici: consegnato a Soffici e Papini presso la redazione fiorentina de Lacerba nel dicembre del 1913, il manoscritto (che si intitolava Il più lungo giorno) viene perduto in un trasloco dallo stesso Soffici e ritrovato solo nel 1971 (!) da sua figlia Valeria. Fu il poeta Mario Luzi a darne notizia ufficiale sul Corriere della Sera del 17 giugno di quell’anno.

Perché Campana andò nel capoluogo toscano per tentare se non il successo almeno il giusto riconoscimento letterario?

Ora bisogna sapere che la Firenze di inizio ‘900 era la vera capitale culturale d’Italia: basti elencare alcune delle riviste lì edite, La Voce di Prezzolini e l’altra sua avventura con Papini, il Leonardo, Il Marzocco dei fratelli Orvieto, Lacerba appunto di Soffici e Papini, e dal ’26 anche Solaria del Carocci, per non dire del mitico Caffè delle Giubbe Rosse nell’attuale Piazza della Repubblica, luogo d’incontro prediletto di moltissimi artisti e letterati del tempo, alcuni dei quali come Montale, Pratolini, Alfonso Gatto, Rosai, Papini, insieme al ministro fascista Bottai, parteciparono al funerale dello stesso Campana[1], morto il primo marzo del’32 di setticemia dopo un’agonia di ben sei ore per essersi ferito col filo spinato del muro del manicomio di Castel Pulci, da dove pare avesse cercato di fuggire e dove era rinchiuso sin dal gennaio del 1918, in seguito alla fine della burrascosa relazione con Sibilla Aleramo. Si erano incontrati nell’estate del ’16 quando, scrive lei, “eravamo due cose d’oro”, ma ben presto il loro rapporto prese una piega strana, quasi di fuga reciproca e a tratti disperata: significativo il loro epistolario, con le lettere sempre più deliranti di Campana sino al suo internamento definitivo.

Sibilla Aleramo (pseudonimo di Rina Faccio, Alessandria, 1876 – Roma, 1960)

Tornando agli Orfici, il poeta non si diede per vinto e, capita l’antifona, già nei primi mesi del ’14, dopo aver invano richiesto la restituzione del manoscritto a Papini e Soffici, ricostruì il testo (sicuramente maledicendo i due distratti “sciacalli del cupolone fiorentino ” intenti come altri a fare “le puttane sul palcoscenico alla serata futurista” del 12 dicembre del ’13 al Teatro Verdi e così dimenticandosi chissà dove i fogli campaniani ricevuti lo stesso fatale giorno). Ora, questa riscrittura non avvenne a memoria, come leggenda tramanda, ma probabilmente aiutandosi con appunti e note e brutte copie laddove Campana ne aveva serbate[2]. Certo, anche in questo caso, l’accaduto non deve aver giovato alla già instabile salute mentale del nostro, il cui primo ricovero in manicomio risale al 1906.

Così, grazie all’aiuto di qualche decina di paesani, nell’estate dello stesso ‘14 fa stampare il libro (in carta poverissima, in verità) col nuovo titolo Canto orfici dal tipografo marradese Bruno Ravagli, teoricamente, da contratto, in mille copie.

Palazzina già sede della tipografia Ravagli a Marradi (FI)

Lapide commemorativa della tipografia Ravagli dove fu stampata la prima edizione dei Canti orfici di Campana nel 1914

In realtà furono molte meno: Campana non aveva un soldo e Ravagli stampò solo qualche centinaio di copie, forse sei o settecento[3]: circa quattrocento le aveva prese il poeta negli anni tentando di venderle a Firenze o dove capitava. Le rimanenti, circa duecentodieci, le ritirò su sua richiesta il fratello Manlio direttamente dal tipografo e le depositò nella casa di famiglia a Marradi, dove furono poi bruciate da ignari soldati inglesi, che avevano scelto quell’abitazione come rifugio durante l’inverno del ’44-’45 e che, come ogni inverno marradese, non doveva essere stato uno scherzo.

Oggi per acquistare una delle poche copie sopravvissute dell’edizione del ’14 occorrono non meno di seimila euro.

Fortunatamente è possibile leggere e conoscere l’opera di questo grande anche in edizioni economiche! E quella di Campana è lingua preziosissima, i cui echi dannunziani non illividiscono la sostanza tagliente e lucente dei versi (o delle prose), come di sassi di fiume levigati da secoli di acqua e luce feroci, benché spesso siano notturni i soggetti trattati. E mai manca in nessuna sillaba, in nessuna virgola la chimera più abbacinante di tutte, così spesso inseguita da Dino nei suoi anni giovanili in viaggi lontanissimi e irrequieti come la sua natura, dal Sud America al nord Europa sino a Odessa, e poi in lungo e largo per mezza Italia specie nel centro nord sino a murarsi vivo in manicomio: quella chimera ha nome libertà e la sua patria (ir)raggiungibile è nelle parole del poeta.

Barche amorrate

Le vele le vele le vele
Che schioccano e frustano al vento
Che gonfia di vane sequele
Le vele le vele le vele!
Che tesson e tesson: lamento
Volubil che l’onda che ammorza
Ne l’onda volubile smorza…
Ne l’ultimo schianto crudele…
Le vele le vele le vele

Dino Campana, da Canti orfici, Marradi 1914 (Roma 2002)

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Pace non cerco, guerra non sopporto
Tranquillo e solo vo pel mondo in sogno
Pieno di canti soffocati. Agogno
La nebbia ed il silenzio in un gran porto.

In un gran porto pien di vele lievi
Pronte a salpar per l’orizzonte azzurro
Dolci ondulando, mentre che il sussurro
Del vento passa con accordi brevi.

E quegli accordi il vento se li porta
Lontani sopra il mare sconosciuto.
Sogno. La vita è triste ed io son solo.

O quando o quando in un mattino ardente
L’anima mia si sveglierà nel sole
Nel sole eterno, libera e fremente?

Dino Campana, da Quaderno, in Campana, Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui (Vallecchi editore, Firenze 1973)

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Io povero troviero di Parigi
Solo t’offro un bouquet di strofe tenui
Siimi benigno a ai vivi labbri ingenui
Ch’io so, tremulo scendi o bacio e ridi.

Dino Campana, da Taccuini, abbozzi e carte varie, I, in Campana, Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui (Vallecchi editore, Firenze 1973) 

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In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose


Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose

P.S. E così dimenticammo le rose.

(per Sibilla Aleramo)

Dino Campana, da Taccuini, abbozzi e carte varie, I, in Campana, Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui (Vallecchi editore, Firenze 1973)

Centro Studi Campaniani “Enrico Consolini” – Marradi  


[1] Le ossa del poeta dal ‘46 riposano sotto una semplice lastra presso la chiesa di San Salvatore a Badia a Settimo (Fi), dopo che la cappella che le ospitava nella stessa chiesa venne distrutta dal crollo del campanile soprastante, fatto saltare in aria dai tedeschi in fuga nel ’44. Va infine ricordata la loro prima sepoltura nel ‘32 presso il cimitero di San Colombano, sempre presso Badia a Settimo.

[2] Cfr. Giampiero Mughini, La collezione (Torino, 2009), in particolare pag. 54-68, Un libro fatto per essere bruciato, il bellissimo capitolo dedicato a Dino Campana.

[3]  Ibidem.

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Premessa: il seguente articolo è stato pubblicato sul nuovo numero della rivista annuale SoloMosaico 2012. 

L’occhio segue le vie che nell’opera gli sono state disposte.” Paul Klee, Schizzi Pedagogici, 1925

Nel libro della Genesi, “Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino Eden perché lo lavorasse e lo conservasse”[1]: la sua creatura deve avere cura della bellezza della vita (non credersene padrone) e può nominarla, grande privilegio. Così l’uomo dà nome alle cose della natura, proseguendo l’opera di Dio, la cui parola ha forza immensamente maggiore, poiché creatrice.

La leggenda praghese del Golem vuole che l’automa d’argilla manufatto dal rabbino Jehuda Löw possa vivere grazie ad una scritta magica sulla sua fronte: emet/verità. Per fermarlo basta cancellare la lettera iniziale, lasciando la parola met/morte.

È il linguaggio che fa la differenza e accomuna dei e uomini. L’uomo, animale dal pensiero complesso e unico protagonista della storia (con ciò che di drammatico questo comporta), possiede più linguaggi per capire se stesso e la realtà: quello dell’arte, ad esempio, con le sue numerose applicazioni, la pittura, l’architettura, la musica, etc.

È stato detto che possedere un linguaggio significa determinare uno stile: in passato questo segnava intere epoche. Oggi, nel magma fluido della contemporaneità, rende riconoscibile una individualità. E non è poco.

Riccardo Licata come Adamo ha trovato un linguaggio per rappresentare la realtà e se stesso nella realtà: Licata è i suoi segni-simboli-note musicali-colori-spazi divisi eppure comuni, che sono la sua emet/verità, di volta in volta in forma di mosaici, di dipinti, arazzi, sculture, vetri, acquarelli o quaderni di viaggio, opere grafiche e scenografiche. Riccardo Licata è testimone autentico della sua vita. E non è poco.

Solo un cenno biografico: Torino dov’è nato nel 1929, la Sicilia paterna e il Mediterraneo nel dna, Venezia dove ha studiato e si è formato grazie anche al fermento dei tanti amici spazialisti e informali nell’immediato dopoguerra e Parigi, femme fatale dal ’57. Con gli incontri che uno può immaginare e Licata i grandi li ha incontrati tutti. Poi altri viaggi, nordici ad esempio, con i colori delle foreste sterminate di sempreverdi che si mescolano alle onde e ai riflessi lagunari della giovinezza, e tutto che ritorna coerente in una formula applicata alle superfici più diverse, in cui ogni esperienza reale si fa astratta e ogni astrazione diviene più che mai concreta, passaggio di un uomo, della sua analisi, rielaborazione e riduzione del reale a poche ma sicure tracce e variazioni di un alfabeto estetico che è codice, appunto, immaginario e tangibile.

Del resto, questo è stato il cammino degli alfabeti umani: dai segni di linee equidistanti su osso o altri supporti, ai “disegni sacri”, i grandi affreschi sulle pareti delle grotte primitive, sino alla stilizzazione di quei disegni in ideogrammi che, divenuti simboli, si ridurranno in lettere, quelle usate in occidente quanto meno. Eppure una memoria dei nostri antenati è sempre presente in alcune delle loro forme: la “m”, ad esempio, ricorda il susseguirsi delle onde marine (myn in fenicio).

Le tipologie di segni licatiani individuate da Leonardo Conti (“l’albero totem” e le sue “evoluzioni morfologiche”, “il giogo-occhiello” e “l’occhiello verticale”, la linea “spezzata” e altri “segni articolativi”, fra cui un triangolo, una M e una linea obliqua)[2] si costituiscono col tempo, chiarendosi nella mente dell’artista e aprendogli la via dell’astrazione che “per me era un mito, era la libertà e l’impegno, l’apertura e l’aderenza di un nuovo tempo, e alla nuova storia”[3], lasciandosi alle spalle sia gli insegnamenti del vecchio maestro Saetti, sia le suggestioni spazialiste e informali, benché indubbiamente arricchito da tutte queste esperienze.

Riguardo i suoi segni, in molti e opportunamente hanno chiamato in causa reminiscenze runiche, geroglifiche, arabe e tuttavia nessun alfabeto antico o moderno è loro esatta corrispondenza. I segni licatiani non sono fonetici, ma depositari di più memorie: anzitutto quella della propria forma naturale, come per l’albero-totem, che è anche memoria personale dell’artista, dei tanti boschi incontrati nel suo vagare, divenuti simbolo del suo cammino interiore in cui porre riferimenti sicuri ed evocativi (“certe configurazioni totemiche indicano una presenza incombente, mentre una sequenza fitta rappresenta situazioni complesse alimentate da innumerevoli emozioni”[4]), oltre che rappresentare, insieme al loro colore, un’esplosione vitale per l’uomo, perché alla fine, benché la sua arte possa non apparire “immediata”, vuole “rivolgersi a tutti e la sua porta verso l’accessibilità è la spontaneità”[5].

In questo senso il riferimento corre ad un’altra memoria, quella ancestrale, capace di connettere quest’uomo del XX secolo agli uomini dei primordi, il cui scopo era potenziare “nella ripetizione rituale l’atto sacrificale”[6] per rigenerare vita nuova. E, con le dovute differenze e contestualizzazioni, non è del tutto azzardato vedere nelle ripetizioni licatiane una specie di anticipazione del graffitismo newyorkese di un Keith Haring, ad esempio.

Tuttavia non è corretto definire scrittura quella di Licata, trattandosi in realtà di pittura e d’un genere particolare, quello musicale, come quella di uno dei suoi “padri spirituali”, Paul Klee: essa emerge dal setaccio degli accumuli cromatici e segnici delle prime opere del dopoguerra, in cui erano già presenti alcuni dei suoi leitmotiv e dove sin dagli anni ’50 appaiono anche le caratteristiche divisioni spaziali o “definizioni compartimentali”, come l’autore stesso le ha chiamate, vere e proprie cornici e mappe mentali del suo mondo, di cui l’artista si appropria per circoscrivere lo spazio su cui agire e stendere una figurazione minuziosamente pensata, filtrata, controllata e unitaria, come una partitura.

A questo proposito, vale la pena notare come queste fasce doppie e triple, quasi sempre orizzontali (come le righe di un quaderno, o meglio di un pentagramma, del resto è desiderio dichiarato di Licata voler “dipingere la musica”), talvolta divise in ulteriori quadrati, come metope di un fregio antico (o come, su versanti opposti, nei dipinti “dell’etrusco” Campigli, o nelle campiture sospese, quasi galleggianti di Rothko), poiché come aveva intuito Platone solo dalla scissione dell’unità ha inizio l’analisi e dunque il pensiero, ovvero il processo stesso della conoscenza, questi piani, si diceva, sono col tempo sempre più definiti e ordinati, di pari passo con le sequenze di segni in essi contenute, frasi del conscio e dell’inconscio a confronto, una sopra l’altra, oppure fughe ritmiche, musicali appunto, come variazioni mai uguali a se stesse però, da leggere non già in successione ma come insieme, corpo unico con la superficie che occupano e col colore che le anima, le circonda, le armonizza: “la percezione è perciò globale, simultanea appunto, e non successiva o discorsiva. Vi è cioè la conquista di un istante complesso, concretamente esistenziale anziché esteriormente temporale. (…) Da un lato crediamo che il tempo vada costantemente avanti (è il tempo dello storico per intenderci), dall’altro sentiamo che la storia è fatta di attimi interiori, eternamente presenti (è il tempo del mistico). Credo che negli scomparti a simultaneità segniche di Licata sia il secondo a realizzarsi, con interessanti affinità alla bergsoniana durata interiore[7].

Negli stessi anni compositori come Boulez, Stockhausen o Berio si staccano dalla successione musicale e dunque temporale della tradizione per creare insiemi sonori[8] in cui, insegna Cage, il silenzio occupa una parte rilevante della pagina scritta e dell’aria in cui si dilata.

E tuttavia il silenzio non è pausa o fine, ma parte dell’opera stessa: come negli affastellamenti di graffiti dei primitivi, i segni bianchi o ocra si esaltavano sul grigio silenzioso della roccia (si pensi ai rilievi dei Camuni o a quelli delle popolazioni sahariane), così nei lavori di questo artista il dato cromatico e la sua stesura non sono cosa accessoria ma sempre intimamente legata allo sviluppo dell’insieme, rendendolo omogeneo e unitario, legando gli stessi segni alla superficie trattata e dunque contribuendo alla “percezione simultanea” dell’opera in sé e in relazione all’operare più ampio dell’artista, senza soluzione di continuità fra materia e materia: si prendano alcune carte acquerellate così pregiate da sembrare tessuti, laddove certi arazzi diventano brillanti come oli, mentre i mosaici, capitolo importante della sua attività avendo ereditato il magistero di Severini a Parigi e valendosi di alcuni collaboratori fra i maggiori mosaicisti contemporanei come Giovanna Galli e  Verdiano Marzi, sfumano come pastelli pur avendo la forza della pietra, fatti di grandi tessere marmoree, talvolta vitree, di tradizione bizantino-ravennate, per eternare nell’arte murale il senso di ascesa e fragilità apparente delle sue figurazioni, tenendo presente che anche “la metafisica sacralità del mosaico deve, pur sempre, fare i conti con la inesauribile, golosa partecipazione alla vita di Riccardo Licata”[9], poiché è propria di questo autore una gioia sorgiva, quasi fanciullesca, del fare, dell’esserci: la sua arte è una Festa Mobile, priva di malinconia  e incessantemente inneggiante alla feroce bellezza della vita.

SoloMosaico.org


[1] Genesi, 2,15.

[2] Leonardo Conti, A segno, in Riccardo Licata e gli amici di Venezia e Parigi, a cura di G. Granzotto e G. Barbero, Roma 2009.

[3]  Riccardo Licata in Les années 50, peintures, sculptures…, a cura di G. Xuriguera, Parigi 1984.

[4] Giovanna Barbero, Riccardo Licata: il diario della vita, in op.cit., Roma 2009.

[5] Giovanna Barbero, Riccardo Licata. Dall’Amor pungente all’Amor di Gloria, Milano 1998.

[6] Emilio Villa e postfazione di Aldo Tagliaferri, L’arte dell’uomo primordiale, postumo, Milano, 2005. L’osservazione rivolta da Villa a molti suoi amici e artisti contemporanei, come Lucio Fontana, si può adattare anche alle “ripetioni – variazioni” di Riccardo Licata.

[7] Leonardo Conti, op. cit., Roma 2009.

[8] Leonardo Conti, op. cit., Roma 2009.

[9] Giovanni Granzotto, Riccardo e i mosaici, in op. cit., Roma 2009.

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Mohamed Banawy, City 1, 2011 , 49×49 cm, clay, glass, cement

Mohamed Banawy (Egypt, 1977): what was your course of study, painting, sculpture? How did you come to discover the mosaic?

I was born in Al-Sharkia-Egypt in 1977. My father was an Art teacher in our country and he was a caricature artist as well. Since I was a child, I used to watch him while painting people and landscapes; this made my curiosity to use these pens and colors. Actually, he was my first teacher. I have joined the Faculty of the Fine Arts-Helwan University in 1995 and in my preliminary year in college, I have studied painting and sculpture and in my first two years, I have joined the Painting Section where I have learnt how to use oil painting , water and pastel colors through painting people and landscapes of the region of Old Egypt and some still life. Then I have joined the Section of the Mural Painting in my last two years and I have studied the Mural designs, Mosaic and Stained Glass. In this period, I was really fond of mosaic especially in my Graduation Project when I designed a huge work by mosaic that expressed the Great Egyptian Civilization. I had the Bachelor in Mural Art in 2000 with Excellency and was the top of my class, then I was appointed as a Lecturer in my Faculty in 2001.

In 2005, I have granted the Creativity State Prize (Rome Prize for Creativity) in mural painting specialized in fresco 2005. It is a prize that is given by the Egyptian Government for the innovative in the Artistic fields and it is the right to dwell in Rome-Italy for 15 months at the Egyptian Academy for Arts there. During this period, I knew a lot about the culture and The Italian Arts by visiting the famous museums in Rome, Florence, Venice, Pisa, Ravenna and etc.

In fact, this period was my real starting point to work in mosaic with new and different perspectives. Hence, I started to feel that as if I am playing with the mosaic parts; how to arrange, gather and separate them, thinking in their soft and scratchy textures, the light effects and many other artistic values.

Mohamed Banawy, Abstract 3, 2010, 80×80 cm, clay, glass

Clay, glaze fragments and especially stones cut in the shape of square, or mosaic pieces. I find your works very interesting and original, in particular the series “Abstract” and “City”, because they don’t want to be painting or sculpture but simply mosaic. They seem visions of territory taken from a distance, almost out of a plane. Can you explain your way of interpreting the mosaic?

The Mud is the secret of life and its eternity, being one of the basic elements of Creation… from Mud, not only Mankind is created, but everything is as well… When I am forming units of Mosaic Mud, I feel with warmth and as if I am a part and parcel of this great Universe; these units have the Great Egyptian Heritage.

Actually, I can see the whole world and feel it, once my eyes are falling on a huge mosaic panel, that was formed unconsciously, with no intention at all; in which all the creatures played a role. Two of these creatures are the Goodness that builds the cities and the Evil that destroys them. As when we build a house or implant a tree or when we have a demonstration, we do put a piece or some stones to form this huge panel. Same as when we destroy a house, we do participate in a particular change in its texture by applying some different tentacles and spaces that should happen as they are destined to be there. That’s why I see the world through a mosaic panel where its features are keep on changing since the Universe has been created and until Resurrection.

I am fond of high places so much and I am enjoying watching the cities from above or from an airplane. During my travelling, these shots and scenes that I used to watch above from a plane are stuck into my head. That was the main reason behind applying these epic scenes in my work. Also, most of these small crowded units that are spread besides or inside the big mosaic ones are always expressing the scenes of the overstock population in some poor districts that is found besides the classy ones. Every unit is in fact a person, a car, a house or a factory, etc.

There is a special technique that I am using in the Abstract Paintings which is emptying the stones and the ceramic that are looking very smooth and soft in order to substitute them by some scratchy stones; keeping in mind; inserting them with different drifts, colors and textures… In fact, I have inspired this technique from the architectural restoration that I have seen once in Pisa-Italy where they were restoring an entire house from the outside, with regard to keep some small spaces that can show the stones used in the process. These stones were really amazing especially when the sun light was falling on them.

Mohamed Banawy, Landscape 1, 2010, 80×80 cm , stone mosaic

During the International Festival of Contemporary Mosaic of Ravenna in 2009 and 2011, your work (a sculpture mosaic) was exhibited in 2009 and there were also other Egyptian artists, for example Nermine Al-Masry, Safaa Abd El Salam and Mona Magdi Kenawy: do you know them? Have you seen any ancient monument of Ravenna? Do you know any contemporary mosaic artist of this town?

Surely, I know those artists especially Nermeen Al-Masry (she is one of the teaching staff at my Faculty). In addition to the artist Mona Magdy Qenawy, whom I met during the Alexandria International Symposium for Sculpture in Natural Materials – Sculptural Mosaic. Also, the artists Ellen Goodwin, Manfrid Hoon and Mohamed Salem.

I had a visit to Ravenna that was back to 2006, but unfortunately, it was very short and I have visited Basilica di Sant’Apollinare Nuovo and San Vitale and Museo d’Arte della Città di Ravenna.

I could not meet the contemporary mosaic artists in Ravenna in person, but, definitely, I am tracking the contemporary mosaic movement through their work.

Mohamed Banawy, Still life 1, 2006, 60×120 cm, ceramics, porcelain, stone

Your country is in a time of great change. Do you think that all this can affect your work? What are your plans for the future?

My  work  Douar Misr (Tahrir Square) , it’s about the Egyptian Revolution in 25th January 2011, and about Tahrir Square, it shows the Egyptian attitude in the square, starting from its center along with their rush outside it to defend their rights.

I am trying to open new and updated areas for the non-traditional forms of mosaic surfaces, which based on a study of the artistic features and technical methods.

My artistic experiment is based on forming the traditional materials, using different rules and systems, in addition to create new forms of mosaic units and I would like to do a special exhibition in Ravenna soon.

Web site: www.banawy.com

Mosaic Art Now – Mohamed Banawy

Mohamed Banawy, Douar Misr (Tahrir Square), sculpture mosaic, 2011 , 200×200 cm, stone mosaic

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