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Archive for aprile 2014

Verdiano Marzi, Le due gemelle, particolare dell'Attrice

Verdiano Marzi, Le due gemelle, particolare dell’Attrice (1)

Premessa: con questo titolo, Sentimenti con sostenuta luminosità, si inaugurava a Ravenna la personale di Verdiano Marzi all’interno del battistero degli Ariani in occasione del terzo Festival Internazionale del Mosaico Contemporaneo,  dal 12 ottobre al 23 novembre 2013.

Verdiano oltre a essere un artista da me molto amato è anche fra le persone più gentili che abbia avuto la fortuna di conoscere in questi anni: tempo fa mi ha chiesto di scrivere una presentazione da inserire nel catalogo collettivo del festival.

Qui sotto riporto tale testo, ahimè brevissimo per esigenze editoriali: vorrà dire che una volta tanto i miei lettori si rifaranno attraverso l’incanto delle opere fotografate da Alessandra Dragoni, veri brani poetico-musicali nati dagli occhi nelle mani sapienti di questo grande artista.

 

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Verdiano Marzi, Rêve

Verdiano Marzi, Rêve

 

“La missione dell’arte non è copiare la natura, ma esprimerla.” Balzac

 

Come un gioco di specchi coi volti sacri e senza tempo degli apostoli sulla volta del Battistero degli Ariani appaiono i dodici ritratti laici, maschili e femminili, del poeta di pietra Marzi: sorti all’opposto da ipocentri sotterranei, salgono come onde sismiche che al termine dei loro sostegni metallici e tortili deflagrano in rocce e colori, liberando un’energia liricamente dodecafonica nel costruire visi, identità semplici ma deformate, come anime che, aperte, si mostrano per la prima volta, e in cui pure si ricompone un’armonia nello straniamento contemporaneo, ponte (in)atteso di spiritualità sullo sfondo dei muri nudi e dei mosaici antichi. E come musica, il silenzio.

Verdiano Marzi, Contemplation e Le grand sommeil

Verdiano Marzi, Contemplation e Le grand sommeil

Verdiano Marzi, veduta d'insieme (1)

Verdiano Marzi, veduta d’insieme (1)

Verdiano Marzi, veduta d'insieme  (2)

Verdiano Marzi, veduta d’insieme (2)

Verdiano Marzi, Silence

Verdiano Marzi, Silence

Verdiano Marzi, Silence (2)

Verdiano Marzi, Silence (2)

Verdiano Marzi, Le due gemelle (Soprano e Attrice)

Verdiano Marzi, Le due gemelle (Soprano e Attrice)

Verdiano Marzi, Le due gemelle, Soprano

Verdiano Marzi, Le due gemelle, Soprano

Verdiano Marzi, Ironico ma non troppo

Verdiano Marzi, Ironico ma non troppo

Verdiano Marzi, Les Trois Adolescents

Verdiano Marzi, Les Trois Adolescents

Verdiano Marzi, Les Trois Adolescents (1)

Verdiano Marzi, Les Trois Adolescents (1)

Verdiano Marzi, Les Trois Adolescents (2)

Verdiano Marzi, Les Trois Adolescents (2)

Verdiano Marzi, Les Trois Adolescents (3)

Verdiano Marzi, Les Trois Adolescents (3)

Verdiano Marzi, Scivolo

Verdiano Marzi, Scivolo

Verdiano Marzi, Scivolo (particolare)

Verdiano Marzi, Scivolo (particolare)

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Premessa: con l’articolo seguente, nel quale consiglio una lettura e qualche ottimo film, saluto i miei lettori e a tutti auguro buone festività pasquali. Ne approfitterò anch’io per cercare un po’ di riposo: ci rivediamo a partire da lunedì 28 aprile.

Oltre il giardino

 

“Il linguaggio figurato fu il primo a nascere, i significati propri furono trovati per ultimi”, J.J.Rousseau, Saggio sull’origine delle lingue

 

“Life is a state of mind”, J. Kosinski, dal film Being there – Oltre il giardino

 

Oltre il giardino (Minimum fax, Roma 2014): finalmente ripubblicato un paio di mesi fa e arricchito dall’illuminante prefazione di Giorgio Vasta, il romanzo capolavoro di Jerzy Kosinski del 1971 (in inglese intitolato Being there) permette di leggere la prima e originaria versione del personaggio di “Chance il giardiniere” a tutti coloro che erano rimasti incantati dalla resa cinematografica del 1979 diretta da Hal Ashby e sceneggiata dallo stesso Kosinski, con l’interpretazione straordinaria di Peter Sellers, forse la più alta della sua carriera e tra le migliori dell’intera storia del cinema. E, va ricordato, questo film fu fortemente voluto dall’attore.

Ma chi è Chance? Un orfano, ormai divenuto adulto sebbene rimasto analfabeta, che da sempre è vissuto nella signorile abitazione di un vecchio benestante (anzi, il Vecchio), del quale curava il giardino. Altra sua incessante attività, unico collegamento col mondo esterno e solo piacere oltre alle piante: guardare la televisione per ore ore ed ore imitandone immagini ed espressioni, dal momento che “non provava nessuna curiosità per la vita di là dal muro”.

L’equilibrio tuttavia è destinato a rompersi con la morte del Vecchio e l’arrivo degli avvocati del suo ex studio a reclamarne la proprietà. Senza opporre la minima resistenza, col candore più disarmante, Chance è costretto a lasciare quella casa, il suo mondo, dalla sera alla mattina. Certo si porta dietro i vestiti eleganti del suo ex ospite che del resto, quand’era ancora in vita, già gli aveva concesso. E chissà che fine avrebbe fatto se non fosse stato investito dalla macchina di EE, Elizabeth Eve Rand, moglie del magnate Benjamin, eminenza grigia dell’economia e dunque della politica americana, nonché intimo del Presidente degli Stati Uniti.

Sicché i Rand lo accolgono nella loro magione e ne rimangono assai colpiti, lei sino al punto di innamorarsene, lui scambiando per geniali e acutissime intuizioni filosofiche le battute altrimenti ingenue di Chance, null’affatto profondo e intelligente pensatore, anzi più simile a un Forrest Gump che a un Einstein, che ricava le sue espressioni totalmente prive di metafore o di significati altri rispetto a quello banalmente letterale (e “il comico” diceva Deleuze “è sempre letterale”) dal giardinaggio e dalla televisione, ovvero gli unici poli e ragion d’essere d’una vita che altrimenti si sarebbe giudicata poverissima, ma bastante al nostro (anti)eroe.

Il romanzo è anche una critica alla società dello spettacolo in cui tutti siamo immersi e in cui nulla può essere semplice e diretto, ma deve esserci piuttosto un doppio, triplo (e magari torbido) senso: persino il nome con cui il protagonista diviene noto, Chauncey Gardiner, nasce da un fraintendimento di Mrs Rand, essendosi invece egli correttamente presentato come Chance the gardener,  tanto che gli stessi servizi segreti russi e americani impazziscono nel non trovare informazioni su di lui, che nel frattempo viene introdotto nel gotha del potere statunitense, divenendo un guru assai ascoltato anche grazie ad apparizioni pubbliche e televisive di incredibile successo.

Il film non è la trasposizione letterale del libro, tant’è che Kosinski nello sceneggiarlo ne riscrisse alcune parti, incluso il finale, col discorso del Presidente in cui viene pronunciata la frase più nota della pellicola (ma assente nel romanzo): “la vita è uno stato mentale”. Da un lato, interno alle dinamiche della trama e dei suoi personaggi, essa è quanto di più lontano dalla “letteralità” di Chance, inaccettabile o incomprensibile per gli altri uomini che infatti hanno bisogno di metaforizzare tutto ciò che egli dice. D’altro canto però, quella frase letta dall’esterno, da noi spettatori, è sibillina, poiché alfine tutti quanti, incluso l’ignaro Chance, siamo prigionieri-autori del nostro stato mentale più o meno complicato che sia. Comunque, mentre il Presidente recita il suo discorso commemorativo per la morte dell’amico e grande elettore Benjamin Rand, la cui bara è trasportata da altri squali della finanza che, fra l’altro, progettano per Chance una carriera da futuro presidente americano, il povero ex giardiniere, del tutto disinteressato, passeggia poco distante lungo il bordo di un laghetto e poi direttamente sulle stesse acque come un novello Gesù, senza la minima consapevolezza d’esserlo e senza messaggi salvifici per l’umanità, non essendone peraltro capace, poiché nel suo sguardo “c’è registrazione ma non c’è elaborazione, percezione senza conoscenza”[1], essendo in definitiva armato solo di ombrello e bombetta, come il più comune e grigio omino magrittiano, personaggio dunque cavo, svuotato, ma non vacuo[2], “la cui passività è talmente intensa da trasformarsi in una vera e propria azione”[3] per coloro che gli sono circostanti.

Chance mi ha ricordato altri due personaggi cinematografici simili in apparenza, agli antipodi in realtà: da una parte il mitico Zelig (1983) di Allen, buono e inoffensivo, la cui passività, a differenza del giardiniere, consiste nel cambiare aspetto fisico come un camaleonte (sono dunque gli altri a far mutare il suo corpo che, proteiforme, si trasforma) in cerca di perenne approvazione e affetto da parte di chi lo circonda o solo gli sta accanto (mentre le persone sono poco più che indifferenti per Chance, interessanti solo se ridotte a immagini televisive); dall’altra il candido Zoran, il mio nipote scemo (2013) di Matteo Oleotto, con un cattivissimo lebowskiano a dir poco esilarante Giuseppe Battiston, zio di un tenerissimo Zoran-Zagor, interpretato dall’esordiente Rok Presnikar, perfetto anche fisicamente, che alla fine però, ribaltando i ruoli e facendo uno scatto dall’iniziale passività e dipendenza, come una delle sue freccette magiche farà centro acquistando sicurezza e un certo senso critico, addirittura prendendosi cura dello sciamannato parente e in sostanza migliorandone l’esistenza altrimenti perdutamente alcolica. Dunque, buona visione, buona lettura, buona vita.

 

 

 

 

[1] G. Vasta, da Chance & co., prefazione a Oltre il giardino di J. Kosinski, Minimum fax, Roma 2014, p.18.

[2] G. Vasta, op. cit., pp. 8-9.

[3] G. Vasta, op. cit., p.19.

 

 

 

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Juan Gelman (Buenos Aires, 1930 - Città del Messimo, 2014)

Juan Gelman (Buenos Aires, 1930 – Città del Messimo, 2014)

Che vita quella di Juan Gelman (Buenos Aires, 1930 – Città del Messico, 2014): quanti dolori, quante sconfitte avrebbe potuto sopportare un uomo, quest’uomo, se non lo avesse da sempre sostenuto una vocazione incrollabile, la fede vera della poesia unita alla passione civile?

Poeta vero, dunque, naturale e naturalmente comunista come ogni sudamericano che a metà ‘900 avesse voluto opporsi alle ingiustizie delle varie dittature che andavano divorando quelle struggenti disgraziate terre (bene inteso: non che il comunismo fosse la soluzione, come dimostrano le storie parallele dei gulag russi anche post stalinisti, ma in quel momento storico, in quel continente poteva sembrare l’ideologia giusta viste le alternative): per le sue idee politiche venne arrestato nell’Argentina dell’inizio anni ’60 sotto José María Guido e dopo qualche anno dalla scarcerazione costretto a lasciare il Paese giusto prima del feroce golpe militare del ’76, che insieme a decine di migliaia di altri connazionali assassinò suo figlio appena ventenne Marcelo Ariel con l’altrettanto giovane nuora diciannovenne Maria Claudia, mentre di loro figlia nata durante la prigionia non si seppe più nulla.

Gelman, dopo aver vissuto il suo esilio errante tra Roma Ginevra Madrid Parigi Managua e New York, si stabilì definitivamente a Città del Messico e dalla fine degli anni ’80, dopo l’indulto del presidente Menem, riuscì anche a rimettere piede in Argentina. Nel 1999 una sorpresa inattesa quanto sospirata: ritrovò sua nipote Macarena, nel frattempo adottata da una famiglia uruguayana di Montevideo. Dunque alla fine la vita vinse. E nonno e nipote si misero a collaborare in favore dei diritti delle famiglie dei desaparecidos. Da farci un film.

Il crepuscolo, dal 2000 in poi, fu tutto un piovere glorioso di premi e riconoscimenti internazionali, incluso il prestigiosissimo Cervantes del 2007. Non resta che lasciare spazio alle divertite commosse parole che Gelman dedicò all’amico e scrittore Juan Carlos Onetti  e che io riporto volutamente in minuscolo, come trovate sul prezioso Doveri dell’esilio edito da Interlinea nel 2006, e che qui controdedico a un “poeta” della storia medievale, il grandissimo storico Jacques Le Goff, che a 90 anni ci ha lasciati una settimana fa per andare a capire meglio, finalmente, i misteri di quell’età di mezzo (per lui e non senza ragioni da estendere ben oltre Colombo) cui ha dedicato con gioia la passione della sua vasta intelligenza.

 

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sempre la poesia

a juan carlos onetti

 

la poesia deve essere fatta da tutti e non da uno / disse /
certe cose le può dire solamente un francese / zoppo /
che nessuno sa cosa fece nella comune di parigi /
nessuno sa se morì o non riuscì /

si ricordano tutti di quando suonava il piano fino alle ore piccole dell’anima /
disturbando i vicini che poi dovevano andare al lavoro /
e se ne andavano dalla pensione avendo dormito male /
pensando alla madre del pianoeta o poenista /

maledicendola ogni volta che inciampavano sui sassi
o nei freddi delle strade di parigi / il peggio
è che avevano un accordo in testa e non se lo potevano levare /
fondevano il ferro / soffiavano il vetro / e non

potevano togliersi di testa l’accordo dello zoppo /
lo zoppo gli aveva composto un accordo in testa
dove trascorrevano furie / aurore / presagi /
dove una volta a un ferroviere gli passò un uccellino /

l’uccellino volava al futuro /
con un foglietto nel becco che diceva futuro /
il fatto è che i vicini dello zoppo
avevano visi da pianoforte a metà pomeriggio /

gli cadevano musiche /
o tasti d’oro dove iniziava l’orizzonte /
una donna bellissima cantava nella testa
dei vicini dello zoppo / che in realtà non era francese /

ma invece uruguaiano /
solo a un uruguaiano può venire in mente che la poesia
deve essere fatta da tutti e non da uno /
che è come dire che la terra è di tutti e non di uno solo /

che il sole non è di uno /
che l’amore è di tutti e di nessuno /
come l’aria / e la morte è di tutti / e la vita
non ha padrone conosciuto /

tu non eri zoppo / lautréamont /
è che lasciasti l’uruguay /
e perdesti un pezzo di te che
suona il pianoforte e non lascia dormire /

Juan Gelman (Buenos Aires, 1930 – Città del Messico, 2014), da Doveri dell’esilio, a cura di L. Branchini, Interlinea edizioni, Novara 2006.

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Oskar Kokoschka, Ritratto di Karl Kraus, 1925, Museum Moderner Kunst, Vienna

Oskar Kokoschka, Ritratto di Karl Kraus, 1925, Museum Moderner Kunst, Vienna

 

Come promesso nella premessa di ieri, ecco la pagina del primo aprile quest’anno dedicata al sottile ingegno mitteleuropeo di Karl Kraus (Jičín 1874 – Vienna, 1936): 

“Molti desiderano ammazzarmi. Molti desiderano fare un’oretta di chiacchiere con me. Dai primi mi difende la legge.”

“Un aforisma non ha bisogno di essere vero, ma deve scavalcare la verità. Con un passo solo deve saltarla.”

“Un aforisma non si può dettare su nessuna macchina per scrivere. Ci vorrebbe troppo tempo.”

“L’aforisma non coincide mai con la verità; o è una mezza verità o una verità e mezzo.”

“La donna è coinvolta sessualmente in tutti gli affari della vita. A volte perfino nell’amore.

“Quanto poco c’è da fidarsi di una donna, che si fa cogliere in flagrante fedeltà! Oggi fedele a te, domani a un altro.”

“Per essere perfetta le mancava solo un difetto.”

“Sotto il sole non c’è essere più infelice del feticista che brama una scarpa da donna e deve contentarsi di una femmina intera.”

“Non è vero che non si possa vivere senza una donna. È vero soltanto che senza una donna non si può aver vissuto.”

“La moralità è ciò che, pur senza essere osceno, offende grossolanamente il mio senso del pudore.”

“Le pene servono a spaventare coloro che non vogliono commettere peccati.”

“Lo scandalo comincia quando la polizia vi mette fine.”

“Ciò che nello sciovinismo non è simpatico non è tanto l’avversione per le altre nazioni quanto l’amore per la propria.”

“La vita familiare è un’interferenza nella vita privata.”

“La democrazia divide gli uomini in lavoratori e fannulloni. Non è attrezzata per quelli che non hanno tempo per lavorare.”

“Mentire per necessità è sempre perdonabile. Ma chi dice la verità senza esservi costretto non merita nessuna indulgenza.”

“Ci sono certi scrittori che riescono ad esprimere già in venti pagine cose per cui talvolta mi ci vogliono addirittura due righe.”

Karl Kraus, da Detti e contraddetti (a cura di R. Calasso, Adelphi, Milano, 1992).

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