Dentro la pittura attraverso il cinema: questo è il viaggio che il regista polacco Lech Majewski fa compiere ai personaggi e allo spettatore di The Mill and The Cross (2011), ovvero il mulino e la croce, punti focali del film e dell’occhio di Pieter Bruegel il Vecchio (Breda?, 1525-30 ca. – Bruxelles, 1569), potente artefice della Salita al calvario (1564), di cui questa splendida pellicola rappresenta un’esegesi guidata dallo stesso pittore, sapiente amante della propria arte e testimone in questo caso dolente del proprio tempo, qui impersonato da Rutger Hauer. E poco importa se l’attore è quasi settantenne mentre l’artista non aveva ancora quarant’anni quando terminò la tavola: il volto intenso e segnato di Hauer è perfetto, nessun trentenne avrebbe potuto sostenere quel ruolo a quel livello.
Pochi i dialoghi e quasi nulla la trama o meglio la trama è il quadro-capolavoro del grande artista che, tableau vivant (nel filone, fra gli altri, di Tarkovskij, Kurosawa, Pasolini e Rohmer), prende vita sotto il nostro e il suo sguardo, mentre egli tratteggia i personaggi o sistema un particolare di un abito o torna sulla pagina e getta altri schizzi che diventano realtà tridimensionale. O forse è vero il contrario: egli riprende la realtà che si affaccia alla sua vista e si sovrappone alla vista parallela della sua mente, poiché alfine è nella mente del pittore stesso che ci troviamo a camminare, a lui fianco a fianco.
Analogie, metafore, parallelismi, circolarità, nitore fiammingo e verità complessiva delle microstorie nella Storia: questi i motori che animano l’opera o meglio le opere, quella filmica e quella dipinta: continuo è l’entrare-uscire dal quotidiano nordico della metà del XVI secolo per rappresentare la Passione di Cristo (da cui, unica pecca, il brutto titolo con cui il film è stato tradotto in italiano, I colori della passione, che di primo acchito rischia di farlo passare per un trito feuilleton amoroso), con un’attenzione fotografica, scenografica e dei costumi minuziosa e così esatta da essere ben degna del Barry Lindon kubrickiano o del Mestiere delle armi di Olmi, nonché della riflessione sui tempi lunghi della storia di Braudel, tale da ricreare sì l’atmosfera di quella regione in quel periodo, ma con abitudini, vestiti e riti uguali da secoli e perpetuati ancora per secoli se ben oltre la metà del XIX secolo, in piena seconda rivoluzione industriale, quel mondo non era del tutto estinto, come ricordano i pii contadini di Millet o i raccogli patate di Meunier, Liebermann e Van Gogh.
L’umanità delle Fiandre di metà ‘500 si presenta così, semplice e rurale e perseguitata dai mercenari in giubba rossa al soldo spagnolo, che torturano e ammazzano gli eretici (o presunti tali) in nome di Dio e di Filippo II, gli stessi sgherri che Bruegel inserisce come soldati romani nel suo dipinto al cui centro, come nella tela di un ragno, è Cristo accasciato sotto il peso della croce, che quasi non si nota nell’accrocco di persone che neanche badano alla scena, intente come sono alle miriadi di attività loro. Solo in primo piano sulla destra svetta il cerchio di alcune donne sofferenti e un uomo, Giovanni, che regge la più anziana di tutte, Maria (Charlotte Rampling), madre dolorosa di tutte le madri dolorose, che non si dà pace per la fine di quel figlio che nella disperazione continua ad amare ancora più intensamente.
E Bruegel spiega all’amico banchiere e collezionista Nicolaes Jonghelinck (Michael York) l’architettura simmetrica dell’opera, l’albero della vita all’estremità sinistra, mentre quello della morte a destra, coi corvi famelici in cima e un teschio di cavallo vicino, in basso, e se sullo sfondo del primo appare il verde della vegetazione e la città chiara, circolare, con le mura a difendere la vita, al capo opposto ecco il cerchio della morte da cui non c’è difesa, ovvero l’affollamento di gente venuta ad assistere al grande spettacolo, l’esecuzione dei condannati su un colle brullo (il Golgota). In mezzo al dipinto, su un alto sperone roccioso, è un mulino a vento col mugnaio che si affaccia e assiste quasi indifferente (volutamente impotente?) a tutto: egli è Dio, dice l’artista, che agli uomini fornisce la farina per il pane quotidiano ma non interferisce con le loro azioni. Già, il libero arbitrio, mica questione da poco.
A differenza della vulgata biografica d’inizio ‘600 di Karel Van Mander, il Vasari fiammingo, che voleva Bruegel d’origine contadina e pittore di contadini, si scopre qui uomo di ben altro spessore, anche se, va detto, sin da subito il suo valore fu riconosciuto a partire proprio da quegli Asburgo che tanto terrore portarono fra la sua gente. Non a caso oggi molte sue opere si trovano al Kunsthistorisches Museum di Vienna: qui, nella sala dov’è conservato il dipinto, termina il film, quasi a suggerire quanto inimmaginabile sia, nel silenzio irreale di una galleria odierna, il senso ultimo e intimo di ogni immagine, il carico densissimo, stratificato, di passato personale collettivo e attuale (tanto più se drammatico). Un invito in più a fermarsi e pensare.