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Archive for gennaio 2013

i colori della passione

Dentro la pittura attraverso il cinema: questo è il viaggio che il regista polacco Lech Majewski fa compiere ai personaggi e allo spettatore di The Mill and The Cross (2011), ovvero il mulino e la croce, punti focali del film e dell’occhio di Pieter Bruegel il Vecchio (Breda?, 1525-30 ca. – Bruxelles, 1569), potente artefice della Salita al calvario (1564), di cui questa splendida pellicola rappresenta un’esegesi guidata dallo stesso pittore, sapiente amante della propria arte e testimone in questo caso dolente del proprio tempo, qui impersonato da Rutger Hauer. E poco importa se l’attore è quasi settantenne mentre l’artista non aveva ancora quarant’anni quando terminò la tavola: il volto intenso e segnato di Hauer è perfetto, nessun trentenne avrebbe potuto sostenere quel ruolo a quel livello.

Pochi i dialoghi e quasi nulla la trama o meglio la trama è il quadro-capolavoro del grande artista che, tableau vivant (nel filone, fra gli altri, di Tarkovskij, Kurosawa, Pasolini e Rohmer), prende vita sotto il nostro e il suo sguardo, mentre egli tratteggia i personaggi o sistema un particolare di un abito o torna sulla pagina e getta altri schizzi che diventano realtà tridimensionale. O forse è vero il contrario: egli riprende la realtà che si affaccia alla sua vista e si sovrappone alla vista parallela della sua mente, poiché alfine è nella mente del pittore stesso che ci troviamo a camminare, a lui fianco a fianco.

I-colori-della-passione-Hauer

Analogie, metafore, parallelismi, circolarità, nitore fiammingo e verità complessiva delle microstorie nella Storia: questi i motori che animano l’opera o meglio le opere, quella filmica e quella dipinta: continuo è l’entrare-uscire dal quotidiano nordico della metà del XVI secolo per rappresentare la Passione di Cristo (da cui, unica pecca, il brutto titolo con cui il film è stato tradotto in italiano, I colori della passione, che di primo acchito rischia di farlo passare per un trito feuilleton amoroso), con un’attenzione fotografica, scenografica e dei costumi minuziosa e così esatta da essere ben degna del Barry Lindon kubrickiano o del Mestiere delle armi di Olmi, nonché della riflessione sui tempi lunghi della storia di Braudel, tale da ricreare sì l’atmosfera di quella regione in quel periodo, ma con abitudini, vestiti e riti uguali da secoli e perpetuati ancora per secoli se ben oltre la metà del XIX secolo, in piena seconda rivoluzione industriale, quel mondo non era del tutto estinto, come ricordano i pii contadini di Millet o i raccogli patate di Meunier, Liebermann e Van Gogh.

L’umanità delle Fiandre di metà ‘500 si presenta così, semplice e rurale e perseguitata dai mercenari in giubba rossa al soldo spagnolo, che torturano e ammazzano gli eretici (o presunti tali) in nome di Dio e di Filippo II, gli stessi sgherri che Bruegel inserisce come soldati romani nel suo dipinto al cui centro, come nella tela di un ragno, è Cristo accasciato sotto il peso della croce, che quasi non si nota nell’accrocco di persone che neanche badano alla scena, intente come sono alle miriadi di attività loro. Solo in primo piano sulla destra svetta il cerchio di alcune donne sofferenti e un uomo, Giovanni, che regge la più anziana di tutte, Maria (Charlotte Rampling), madre dolorosa di tutte le madri dolorose, che non si dà pace per la fine di quel figlio che nella disperazione continua ad amare ancora più intensamente.

E Bruegel spiega all’amico banchiere e collezionista Nicolaes Jonghelinck (Michael York) l’architettura simmetrica dell’opera, l’albero della vita all’estremità sinistra, mentre quello della morte a destra, coi corvi famelici in cima e un teschio di cavallo vicino, in basso, e se sullo sfondo del primo appare il verde della vegetazione e la città chiara, circolare, con le mura a difendere la vita, al capo opposto ecco il cerchio della morte da cui non c’è difesa, ovvero l’affollamento di gente venuta ad assistere al grande spettacolo, l’esecuzione dei condannati su un colle brullo (il Golgota). In mezzo al dipinto, su un alto sperone roccioso, è un mulino a vento col mugnaio che si affaccia e assiste quasi indifferente (volutamente impotente?) a tutto: egli è Dio, dice l’artista, che agli uomini fornisce la farina per il pane quotidiano ma non interferisce con le loro azioni. Già, il libero arbitrio, mica questione da poco.

Pieter Bruegel, Salita al Calvario, 1564, Kunsthistorisches Museum, Vienna

Pieter Bruegel, Salita al Calvario, 1564, Kunsthistorisches Museum, Vienna

A differenza della vulgata biografica d’inizio ‘600 di Karel Van Mander, il Vasari fiammingo, che voleva Bruegel d’origine contadina e pittore di contadini, si scopre qui uomo di ben altro spessore, anche se, va detto, sin da subito il suo valore fu riconosciuto a partire proprio da quegli Asburgo che tanto terrore portarono fra la sua gente. Non a caso oggi molte sue opere si trovano al Kunsthistorisches Museum di Vienna: qui, nella sala dov’è conservato il dipinto, termina il film, quasi a suggerire quanto inimmaginabile sia, nel silenzio irreale di una galleria odierna, il senso ultimo e intimo di ogni immagine, il carico densissimo, stratificato, di passato personale collettivo e attuale (tanto più se drammatico). Un invito in più a fermarsi e pensare.

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Il diritto del bambino è di essere un uomo. Ciò che fa l’uomo è la luce; ciò che fa la luce è l’istruzione. Quindi il diritto del bambino è l’istruzione gratuita, obbligatoria.” Victor Hugo, Cose viste 

Daniel Pennac: Diario di scuola (in ita. Feltrinelli, Milano 2008). Ogni insegnante dovrebbe leggere questo libro, anzi anche ogni alunno o ex alunno: vale più di tanti trattati pedagogici pieni di definizioni fumose e teoriche che cambiano da autore ad autore, avendo in comune solo la scadenza, pari a quella di uno yogurt.

Qui no, qui si raccontano esperienze vere, in sostanza la vita scolastica di Pennac, anzi di Daniel Pennacchioni (famiglia d’origine corsa), prima ex alunno “somaro”, come si definisce egli stesso, uno di quelli proprio negati per ogni apprendimento, uno di quelli che “ma non è possibile, allora la fai apposta!” etc. etc., e poi, miracolo, professore di francese (proprio lui!) e scrittore di successo mondiale.

Com’è stata possibile una tale mutazione?

Il testo con la consueta leggerezza alla Pennac (in realtà una virtù rara e difficile che credo si possa affinare col tempo, ma devi averne di base, un po’ come il coraggio), alterna le vicissitudini dell’allievo a quelle dell’insegnante, e raccontando dà spunti e suggerimenti senza volerne cattedraticamente dare, narra di vittorie e sconfitte, perché il prof. perfetto, come lo studente perfetto, non esiste, è semmai colui che non si arrende e continua ad imparare (guardate l’ottimo docu-film La classe – Entre les murs di Laurent Cantet, 2008), specie dai ragazzi, mettendosi in discussione, sapendoli ascoltare e sì, anche valutare con onestà (poiché la stessa oggettività assoluta è una chimera).

La chiave di volta è l’incontro con quei due o tre docenti che in adolescenza ti cambiano la vita, perché sono mossi da passione, elemento anche per me fondamentale per questo mestiere, passione per la loro materia e passione nel volerla e saperla trasmettere, in sostanza nel rendere curiosi i propri ragazzi. Tutto sta nell’individuare il presunto nemico (le frazioni, le equazioni, i pronomi, l’analisi dei complementi, etc.) e scoprire insieme che non bisogna averne paura: si tratta di liberare il ragazzo dalla maledetta paura di non capire, che non lascia tregua anche alla stima che uno ha di sé portandolo al rifiuto totale, all’estraneità rispetto a qualsiasi materia (“tanto sono negato e poi ‘sta roba nella vita non serve a niente”). E invece no, sediamoci, parliamone, affrontiamo insieme la scalata, abbiamo tempo. E tu puoi, tu vali.

A questo proposito, commoventi le pagine del VI e ultimo capitolo, non a caso titolato Cosa significa amare: “Era lui stesso (il professor Bal) un grande matematico? E l’anno seguente la professoressa Gi un’eccellente storica? E nell’ultimo anno che ripetei, il professor S. un filosofo senza pari? Presumo di sì, ma in verità lo ignoro; so solo che quei tre erano pervasi dalla passione comunicativa della loro materia. Armati di quella passione, sono venuti a prendermi in fondo al mio sconforto e mi hanno lasciato andare solo quando ho avuto i piedi saldamente posati nelle loro lezioni che si rivelarono essere l’anticamera della mia vita. Non che si occupassero di me più che degli altri, no, consideravano alla stessa stregua gli studenti che andavano bene e gli studenti che andavano male, e sapevano risvegliare in questi ultimi il desiderio di capire. Accompagnavano passo dopo passo i nostri sforzi, si rallegravano dei nostri progressi, non si spazientivano per la nostra lentezza, non consideravano mai i nostri insuccessi come un’offesa personale e si mostravano con noi tanto più esigenti in quanto tale rigore era fondato sulla qualità, la costanza e la generosità del loro stesso lavoro.”

Anch’io, per mia fortuna, ho avuto dei professori Bal, Gi ed S., fari della cui luce tuttora continuo a beneficiare. Poi, certo, ho incontrato anche docenti che avrebbero fatto meglio a cambiare mestiere, frustrati e rancorosi, in una parola privi di amore. Pennac narra del maestro Blamard, “il più terribile di tutti, triste aguzzino dei miei nove anni, che fece piovere tanti di quei brutti voti sulla mia testa” e all’ennesima lamentela sulla media del 2 della classe, il giovane Pennacchioni osa rispondere che “o la nostra classe costituiva una mostruosità statistica (32 studenti che non riuscivano a superare la media del 2 in scienze), oppure quel risultato miserrimo sanciva la qualità dell’insegnamento dispensato. Soddisfatto di me stesso, presumo. E sbattuto fuori. “Eroico ma inutile” osservò un compagno. “Sai qual è la differenza tra un prof. e un utensile? No? Il prof. non è riparabile.”

La mia Blamard insegnava italiano al liceo (per la verità anche quella di scienze non scherzava: tremavamo dinanzi a lei): tutto l’anno a dare una serie infinita di 5 nei temi (specie agli alunni maschi), senza alcuna correzione peraltro. Alla domanda cos’è che non va, vorrei capire, cercare di migliorare, la solita risposta annoiata, è lo stile, no? C’era da convincersi di essere delle nullità senza speranza. Alla fine ebbi la pensata giusta, quanto meno per provare qualcosa a me stesso: l’arpia ci aveva detto che fra le tracce dell’ultimo tema dell’anno ci sarebbe stata una recensione. Ne copiai di sana pianta una di Raffaele La Capria presa dal Corriere della Sera di qualche giorno prima e la proposi tale e quale, ovviamente omettendo il particolare del vero autore. Risultato? 5+, “ giusto perché siamo alla fine dell’anno e sono più buona”. Avessi scelto un Nobel, forse un 6- poteva scappare. La verità triste è che per motivi suoi, quella signora non ha mai letto i miei scritti, come quelli di chissà quanti altri. Il voto era già assegnato in partenza, alla sola vista del cognome. Da parte mia ne seguì uno sputtanamento doveroso e senza pari con tutti i suoi colleghi e con i miei compagni di classe. Anni dopo, magra consolazione, la incontrai per caso in biblioteca a Bergamo quando, più rinsecchita che mai e anche claudicante (segno che qualche colpo le era arrivato), ebbi finalmente il coraggio liberatorio di guardarla dritta nei suoi occhietti piccoli e cattivi e dirle: “Vecchia stronza!”. La sua faccia a culo di gallina era incredula, me ne andai trionfante. Questo è il risultato di quella “speciale ferocia” che, dice Pennac, questi esseri preposti ma in verità opposti all’insegnamento sanno suscitare nei loro malcapitati allievi, “qualcosa di simile alla rabbia con cui il naufrago trascinerebbe a picco con sé il capitano codardo che ha lasciato la nave incagliarsi sullo scoglio”. Tutto passato, per fortuna, è ormai nel tempo. Però quanta sofferenza inutile, quanta energia sprecata.

Meglio ricordarsi dei maestri che hanno fatto bene alla nostra esistenza, come la professoressa del ginnasio che mi fece scoprire e amare Poe, Balzac, Čechov, Tucidide e gli storici francesi. Una volta ci portò in uscita didattica a Milano per vedere un Godot. Cosa sarebbe stata la mia vita senza letteratura, senza poesia né teatro, tutte cose da cui l’altra ignobile tentò di allontanarmi col peso della sua autorità? Forse avrei incontrate lo stesso quelle pagine, ma più tardi, spaventato, avvicinandomi con cautela. Per fortuna è andata diversamente. Grazie di cuore professoressa S., anima nobile.

Dice ancora Pennac: “invece di raccogliere e pubblicare le perle dei somari che suscitano l’ilarità in tante aule professori, bisognerebbe scrivere un’antologia dei bravi insegnanti. La letteratura non manca di simili testimonianze: Voltaire che rende omaggio ai gesuiti Tournemine e Porée, Rimbaud che sottopone le sue poesie al professor Izimbard, Camus che scrive lettere filiali al signor Martin, suo adorato maestro, Julien Green che ricorda con affetto l’immagine vivida del professor Lesellier, suo insegnante di storia, Simone Weil che fa le lodi del suo maestro Alain, il quale non dimenticherà mai Jules Lagneau che lo introdusse alla filosofia, J.-B. Pontalis che celebra Sartre, che “spiccava” così tanto fra gli altri professori…

Se, oltre a questi maestri celebri, l’antologia offrisse il ritratto dell’insegnante indimenticabile che quasi tutti abbiamo incontrato a un certo punto del nostro percorso scolastico, forse ne trarremmo qualche lume sulle doti necessarie alla pratica di questo strano mestiere.”

Giuseppe Battiston legge “Diario di scuola” di Daniel Pennac

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Premessa: il testo seguente è stato appena pubblicato su Mosaïque Magazine n.5 (gennaio 2013), quale commento alla collettiva Ti desidero – I long for you da me curata presso la Musivum Gallery di Mosca (24 ottobre – 2 dicembre 2012). Per visualizzare il testo in catalogo e le opere esposte cliccare qui.

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Ti desidero è il titolo della collettiva di giovani mosaicisti da me curata presso la Musivum Gallery di Mosca col supporto dell’ottimo staff organizzativo della Ismail Akhmetov Foundation.

CaCO3, Roberta Grasso, Samantha Holmes, Vadzim Kamisarau, Silvia Naddeo, Matylda Tracewska e Aleksey Zhuchkov: sette proposte artistiche assai differenti fra loro sia dal punto di vista delle costruzioni tecniche delle opere, sia a livello di significato.

CaCO3 e Tracewska sono impegnati in ricerche astratte, i primi ragionando sui campi energetici, sul moto delle particelle che compongono il tessuto di ogni frammento dell’universo reso attraverso l’uso particolare e tridimensionale del vermiculatum antico, mentre l’artista polacca con un omaggio singolare a Malevič, propone una riflessione sui colori-non colori assoluti, il bianco e il nero, a cui unisce ricordi personali della sua permanenza in Russia, lo splendore lucente di Pietroburgo e la visione della casa della poetessa Anna Achmatova, con la fotografia di lei bambina e il suo cane nella neve.

Viceversa sembra poggiarsi su un’evidenza (o apparenza?) figurativa il lavoro degli altri protagonisti: Grasso col suo mosaico morbido in “tessuto” di silicone cita la dimensione del sogno, dell’incanto e della musica di Tchaïkovski (ma dietro il sogno si nasconde forse l’inquietudine inconfessabile di un incubo? L’ultimo Truffaut e ancor più Hitchcock ne sarebbero certamente ispirati), Naddeo gioca col cibo ingrandendolo quasi iperrealisticamente, in questo caso con un piatto russo tipico, il blin, ma se da una parte il suo lavoro per il soggetto trattato e per l’uso costante di linee curve celebra la vita, la gioia e per certi versi la fertilità, dall’altra i suoi iper-volumi potrebbero schiacciare l’osservatore (lo stesso che si ciba di ciò che sta osservando) quasi approdando al grottesco (qui i riferimenti, sempre stando in ambito cinematografico, potrebbero andare da Fellini ai Monty Python), mentre Zhuchkov fa un’operazione parallela e opposta alle nature morte dell’italiano Giorgio Morandi, suo punto di partenza, per smaterializzare quegli oggetti (brocche e bicchieri), tessera dopo tessera, scavandone l’essenza sino al solo profilo ridotto su una griglia cartesiana per giungere talvolta ad uno spazio teorico e analitico tanto quanto era concreto e unitario quello del suo modello di partenza.

Infine se il bielorusso Kamisarau realizza una contraddizione, fermare su pietra frame televisivi di avvenimenti effimeri e leggeri o più gravi ma sempre fugaci (dalle partite sportive allo scoppio di una bomba) per capire il valore del tempo nel nostro tempo liquido e, si potrebbe aggiungere, per capire anche se quelle cose esistono o sono solo frutto di fiction, inclusi gli eventi dolorosi (non a caso nei suoi quadri ci sono sempre dei non finiti, dei buchi come fossero recuperi archeologici impossibili da vedere per intero o dietro i quali si cela il vuoto, il nulla), l’americana Holmes torna a parlare della memoria stavolta in senso intimo e spirituale: piccoli foglietti-tessera cartacei e quadrati legati e impilati fra di loro, sospesi grazie ad una struttura metallica, come tante preghiere non scritte, vertice mistico o al suo opposto assenza divina, come nel grande mosaico che prevede l’evidente cancellazione di una figura di santo antico (oggi all’uomo manca credere o gli è semplicemente impossibile?).

Dunque cosa lega artisti così differenti fra loro? Il fatto che insieme, in mostra, grazie alla ritrovata modernità e attualità di questo linguaggio, il mosaico, oggi davvero in grado di esprimere qualunque idea, siano sollecitati i cinque sensi attraverso il denominatore comune del sesto senso, quello dell’intuizione. Ma intuizione di cosa? Del desiderio.

Desiderare significa etimologicamente assenza di stelle (in latino, de-sidera): come i soldati di Giulio Cesare, i desiderantes, aspettavano fiduciosi nelle notti senza stelle i propri compagni per proseguire insieme il cammino[1], così il desiderio indica un’assenza, una mancanza ma anche la speranza di superare la difficoltà momentanea, o meglio, come direbbe Jacques Lacan[2], l’esigenza dell’incontro con l’Altro da sé che completa il senso altrimenti sterile dell’io, ovvero la ricerca e il raggiungimento del piacere che ha fatto la fortuna evolutiva della specie umana[3], e nel caso di questi artisti la ricerca delle domande che sono i loro desideri di trovare più che risposte ferme, vie nuove da indagare, certo attraverso il piacere della bellezza, del loro saper fare pensando: stupore di mente, mani e occhi, i loro, i nostri.

Mosaïque Magazine

Musivum Gallery Mosca – Ti desidero/I long for you


[1] Massimo Recalcati, Ritratti del desiderio (Milano 2012).

[2] Jacques Lacan, Scritti (ediz. ital. Torino 1974).

[3] David J. Linden, The Compass of Pleasure (New York 2011); The Accidental Mind: How Brain Evolution Has Given Us Love, Memory, Dreams and God (Cambridge, MA, 2007).

 

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Andrea Palladio, I quattro libri dell’architettura, Venezia, 1570

Andrea Palladio, I quattro libri dell’architettura, Venezia, 1570

PROEMIO A I LETTORI

Da naturale inclinatione guidato, mi diedi nei miei primi anni  allo studio dell’architettura; e perché sempre fui di opinione che gli antichi Romani come in molt’altre cose così nel fabricar bene habbiano di gran lunga avanzato tutti quelli che dopo loro sono stati,  mi proposi per maestro e guida Vitruvio, il quale è solo antico scrittore di quest’arte, e mi misi alla investigatione delle reliquie de gli antichi edificii, le quali malgrado del tempo e della crudeltà de’ barbari ne sono rimaste. E ritrovandole di molto maggiore osservazione degne ch’io non mi haveva prima pensato, cominciai a misurare minutissimamente con somma diligenza ciascuna parte loro: delle quali tanto divenni sollecito investigatore, non vi sapendo conoscer cosa che con ragione e con bella proportione non fosse fatta, che poi non una, ma più e più volte mi son trasferito in diverse parti d’Italia e fuori per potere intieramente da quelle quale fusse il tutto comprendere, e in disegno ridurlo.

Laonde veggendo, quanto questo comune uso di fabricare sia lontano dalle osservationi da me fatte ne i detti edificii, e lette in Vitruvio e in Leon Battista Alberti e in altri eccellenti scrittori che dopo Vitruvio sono stati, e da quelle anco che di nuovo da me sono state praticate con molta sodisfattione e laude di quelli che si sono serviti dell’opera mia, mi è parso cosa degna di huomo, il quale non solo a se stesso deve esser nato, ma ad utilità anco de gli altri, il dare in luce i disegni di quegli edificii, che in tanto tempo e con tanti miei pericoli ho raccolti, e ponere brevemente ciò che in essi m’è parso più degno di consideratione, e oltre a ciò quelle  regole che  nel fabricare ho osservato e osservo; a fine che coloro i quali leggeranno questi miei libri possino servirsi di quel tanto di buono che vi sarà, e in quelle cose supplire, nelle quali (come molte forse ve ne saranno) io haverò mancato: onde così a poco a poco s’impari a lasciar da parte gli strani abusi, le barbare invenzioni e le superflue spese, e (quel che più importa) a schifare le varie, e continue ruine, che in molte fabriche si sono vedute.

Andrea Palladio, Spaccato prospetto e pianta della Rotonda, da I quattro libri dell'architettura, 1570

Andrea Palladio, Spaccato prospetto e pianta della Rotonda, da I quattro libri dell’architettura, 1570

VILLA ALMERICO-CAPRA detta LA ROTONDA (dal Secondo Libro, cap. 32)

Fra i molti honorati  gentil’huomini  vicentini  si  ritrova monsignor Paolo Almerico huomo di Chiesa, e che fu referendario di due sommi Pontefici, Pio IV e V, e che per il suo valore meritò di esser fatto Cittadino Romano con tutta la casa sua. Questo gentil’huomo dopo aver vagato per molt’anni per desiderio di honore, finalmente morti tutti i suoi, venne a rimpatriare, e per suo diporto si ridusse ad un suo suburbano in monte, lungi dalla città meno di un quarto di miglio. Ove, ha fabricato secondo l’inventione che segue, la qual non mi è parso mettere tra le fabriche di villa per la vicinanza ch’ella ha con la città, onde si può dire che sia nella città istessa.

Il sito è de gli ameni e dilettevoli che si possano ritrovare: perche è sopra un monticello di ascesa facilissima, e da una parte bagnato dal Bacchiglione, fiume navigabile, e dall’altra è circondato da  altri amenissimi colli, che rendono l’aspetto di un molto grande theatro, e sono tutti coltivati, e abbondanti di frutti eccellentissimi e di buonissime viti. Onde, perché gode da ogni parte di bellissime viste, delle quali alcune sono terminate, altre più lontane, e altre che terminano con l’orizzonte, vi sono state fatte le loggie su tutte e quattro le faccie: sotto il piano delle quali e della sala sono le stanze per la commodità, e uso della famiglia. La sala è nel  mezo,  è  ritonda,  e  piglia  il lume di sopra. I camerini sono ammezati. Sopra le stanze grandi, le quali hanno i volti alti secondo il primo modo, intorno alla sala vi è un luogo da passeggiare di larghezza di  quindici  piedi e  mezo. Nell’estremità de i piedestili che fanno poggio  alle  scale  delle  loggie vi sono statue di  mano di messer Lorenzo Vicentino, scultore molto eccellente.

Andrea Palladio (Padova, 1508 – Maser, 1580), da I quattro libri dell’architettura, presso Domenico de Franceschi, Venezia, 1570.

Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio

Andrea Palladio, Villa Almerico-Capra detta la Rotonda, Vicenza (foto Antonio Politano)

Andrea Palladio, Villa Almerico-Capra detta la Rotonda, Vicenza (foto Antonio Politano)

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