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Archive for giugno 2012

Lunedì 2 luglio 2012 alle ore 21.00, presenterò in forma di conversazione presso la Galleria AMArte di Ravenna un breve excursus antropologico, artistico, storico e letterario sul fenomeno del collezionismo con le relative trasformazioni nel corso dei secoli, arricchito da aneddoti su alcuni dei grandi collezionisti occidentali.

L’incontro, terzo di una serie (i primi due a cura di Davide Cortesi e Giovanni Fanti), si inserisce all’interno della mostra attualmente in corso sino a sabato 7 luglio con una selezione di “Maestri del ‘900” da una collezione privata ravennate.

L’ingresso è gratuito, siete tutti invitati!

Info: Galleria AMArte, Via Baccarini 20, Ravenna

Tel. 0544.1881437; cell. 328.4612194

www.amartegalleria.it ; amarte@amartegalleria.it

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Georges Grosz, Eclissi di sole, 1926

Avendone fatte troppe di guerre, ho certamente dei pregiudizi in materia, e spero di averne molti. Ma è ragionata convinzione dell’autore di questo libro che le guerre siano combattute dalla miglior gente che ci sia, o diciamo pure soltanto dalla gente (…); ma sono fatte, provocate e iniziate da rivalità economiche precise e da un certo numero di porci che ne approfittano. Sono convinto che tutta questa genia pronta ad approfittare della guerra dopo aver contribuito alla sua nascita, dovrebbe venir fucilata il giorno stesso che essa incomincia a farlo da rappresentanti legali della brava gente candidata a combattere.

Ernest Hemingway, dalla Prefazione aggiunta nel 1948 ad Addio alle armi, 1929

 

Diretto ed efficace l’ultimo pamphlet di Fabio Mini (Manfredonia, 1942) dal titolo altrettanto significativo: Perché siamo così ipocriti sulla guerra? (Chiarelettere, Milano 2012).

L’autore è più che competente in materia essendo militare di carriera, generale di corpo d’armata dell’Esercito italiano, con incarichi internazionali importanti come quello di capo di stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa.

“L’ipocrisia”, sostiene, “è quel tipo particolare d’inganno che ricorre alla simulazione di buoni sentimenti per approfittare della buona fede altrui e coprire i vizi propri”: noto il pretesto mitico di Elena per la guerra di Troia (in realtà combattuta “per il controllo delle rotte dell’Egeo e degli stretti per il Mar Nero”), meno nota la resa nipponica al termine del secondo conflitto mondiale non tanto a seguito delle due devastanti bombe su Hiroshima e Nagasaki, quanto per la sorprendete invasione della Manciuria da parte dell’Armata rossa di Stalin che avrebbe così potuto raggiungere l’Hokkaidō, l’Honshū e dunque ripetere “a Tokyo il blitz europeo che le aveva fatto vincere la battaglia di Berlino”. E a proposito delle due atomiche americane, più che a chiudere la guerra in Asia, servirono a preparare la Terza guerra mondiale, ovvero quella oggi conosciuta come Guerra fredda.

Dunque, la guerra in genere parte da un inganno, “ma”, avverte Mini, “non tutto ciò che inganna è ipocrita, come non tutto ciò che è sincero è necessariamente buono”. Secondo Sun-tzu “l’essenza, il Tao, della guerra è l’inganno”. Ecco perché secondo lo stratega del VI secolo a C. vale la pena spiare il nemico, confonderlo prima di muovere battaglia, anzi “il generale migliore non è colui che vince tutte le battaglie, ma colui che è in grado di vincerle senza combatterle”.

In ogni caso la menzogna è la base da cui partire (e quanto sono ipocrite le definizioni di missione umanitaria e/o di pace che vengono propinate all’opinione pubblica, non solo nazionale, con tanti saluti all’art. 11 della nostra Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Almeno qui vengono chiamate per ciò che sono: azioni militari, di guerra, punto e basta) e uno dei cinque punti-risposta alla domanda iniziale analizzati da Mini insieme agli affari (ovviamente “la guerra è un grosso affare”), la politica (e noi italiani, coi tradimenti e la mediocrità dei nostri rappresentanti, non ne usciamo affatto bene, ben da prima della Grande guerra, dai tempi del “brigantaggio” postunitario, sino alla caduta di Gheddafi), il terribile insopprimibile, a quanto pare, “gusto della guerra” (la voglia primordiale di sangue della bestia umana, insomma, e non solo: “il piacere del combattimento, della conquista e della razzia. Perché solo la guerra è in grado di soddisfare i bisogni più reconditi di sopraffazione, violenza, uso e abuso della forza; perché c’è gente non necessariamente pazza o idiota che ha bisogno di usare violenza sugli altri esseri umani e sulle cose terrene per dimostrare a se stessa di essere viva e potente.”) e, infine, la cosiddetta “ipocrisia della normalità”: “siamo così ipocriti sulla guerra perché l’ipocrisia riesce a far considerare «normale» tutto ciò che vi accade, dagli eroismi ai crimini”. Esemplare nella sua (apparentemente) irrisolvibile tragicità la questione israelo-palestinese. Eppure, conclude Mini, in un afflato se non di speranza almeno di umanità, dobbiamo rifiutare questa normalità “anche a costo di apparire ipocriti”.

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Matilda Tracewska, Black Square II, 2011, cm 80×80, marmo, smalto, legno compensato

Matilda Tracewska (Varsavia, Polonia, 1978): nel tuo Paese hai cominciato studiando pittura. Poi hai deciso di completare la tua formazione col mosaico, quello bizantino-ravennate in particolare: cosa ti ha portato verso questa scelta artistica?

Il mio primo approccio col mosaico è avvenuto all’Accademia di Belle Arti di Varsavia e posso con certezza affermare che è stato un amore a prima vista. Stavo frequentando la Facoltà di Pittura, il cui piano di studi prevede, oltre alle materie obbligatorie come la  pittura da cavalletto e il disegno, anche la scelta della cosiddetta specializzazione: si può scegliere fra varie discipline, l’incisione, la fotografia, l’arte del tessuto, l’illustrazione, l’animazione, etc.. Io ho deciso di provare le tecniche murali, ovvero il laboratorio che si occupava di tutte le tecniche legate alla pittura parietale, come i diversi tipi di affresco, il graffito (l’arte d’incisione sugli intonaci colorati freschi) e, alla fine, il mosaico. In quel periodo ero molto affascinata dall’arte degli antichi maestri dell’affresco (Piero della Francesca, Giotto, Mantegna) e frequentare questo laboratorio mi ha permesso di approfondire lo studio sulla loro pittura. Entrare nella stanzetta dei “parietalisti” era come fare un viaggio nel tempo: ci si ritrovava nel laboratorio di un alchimista medievale o rinascimentale, pieno di barattoli di pigmenti coloratissimi, di liquidi e polveri la cui provenienza e utilizzo inizialmente non conoscevamo.

I tempi di lavorazione erano lunghissimi, si ignorava completamente l’aspetto economico del lavoro (è una cosa che ho imparato solo a Ravenna, dove fra i mosaicisti c’è una gara continua a chi lavora più veloce), che ovviamente dal punto di vista professionale era sia un grande male ma anche, secondo me, un grande bene. Durante le pause si leggevano le “ricette” di Cennino Cennini, su cui discutevamo e facevamo delle prove. Quest’aspetto “alchemico” dell’arte mi ha sempre attirato molto: l’arte visiva, fra tutte le sue infinite definizioni, è principalmente un atto di trasformazione della materia.

Nel secondo anno di specializzazione ci hanno fatto provare un piccolo esercizio di mosaico: era una tavola di cm 50×50 eseguita su un disegno geometrico progettato da ciascun studente. Sia durante la scelta dei materiali che durante l’esecuzione di questo piccolo mosaico ho provato un’emozione fortissima (in un certo senso inspiegabile), che finora non mi ha mai abbandonato. Incoraggiata da quest’esperienza ho preparato due mosaici figurativi per il mio diploma di laurea e dopo la laurea ho continuato a fare mosaici da cavalletto per conto mio. Lavoravo d’istinto, non conoscendo le regole esecutive, perché non avevo mai studiato la grammatica del mosaico antico. Usavo le tessere di ceramica che mi preparava una mia amica ceramista, vetro Tiffany e le tessere a lamina metallica che mi preparavo da sola (con le foglie a lamina metallica incollate dietro al vetro).

Prima di venire a Ravenna non ho mai usato il marmo perché all’Accademia di Varsavia non c’era l’attrezzatura per tagliarlo, lo smalto vetroso sapevo solo che esistesse… Col tempo continuava a darmi sempre più fastidio il fatto di non conoscere quanto avrei voluto la tecnica del mosaico (per esempio come lavorare con le sezioni, l’uso di diversi supporti, lavorazione diretta e indiretta, a rovescio, etc.). I problemi che incontravo durante l’esecuzione cercavo di risolverli a modo mio, anche se spesso non ero soddisfatta dei risultati.  È stato uno degli assistenti del mio professore a consigliarmi di continuare a studiare a Ravenna: lui stesso, negli anno ‘80, aveva fatto un corso estivo di mosaico a Lido Adriano. Inizialmente la borsa di studio che sono riuscita ad ottenere prevedeva uno stage presso l’Accademia di Belle Arti di Ravenna di otto mesi… che sono diventati i due anni del Biennio Specialistico di Mosaico. E adesso, fra le diverse avventure artistiche che ho vissuto, sono ormai passati quattro anni da quando ho lasciato Varsavia.

Matilda Tracewska, Black Square I, 2010, cm 80×80, marmo, smalto, oro, legno compensato

Ho visto più di qualche tua opera musiva, sia astratta sia figurativa: mi sembra che le accomuni un’attenzione e un’abilità particolare nel rendere le sfumature di colore in senso molto pittorico, usando in genere tessere abbastanza regolari per disposizione e forma quadrangolare: potresti parlare del tuo lavoro?

Quando faccio mosaico non smetto mai di pensare di essere una pittrice. So che a Ravenna quello che dico può sembrare un’eresia, ma inizialmente sono stata introdotta al mosaico come ad una tecnica pittorica parietale ed io continuo a percepirlo, ma sopratutto a usarlo, come appunto una tecnica pittorica. A Ravenna si lotta tanto per affermare il mosaico come un tipo di espressione artistica autonoma. Io, almeno all’inizio, non ne ho mai sentito bisogno, perché prima di venire in questa città non mi rendevo conto di tutti i problemi legati al mosaico, ad esempio la riproduzione del quadro pittorico, col difficile rapporto fra il progettista del cartone e l’esecutore/mosaicista del mosaico, che vede il mosaico come arte applicata al servizio della pittura, col problema della traduzione del colore spalmato (il liquido di colore su carta o tela) rispetto ai solidi cubetti di smalto colorato o pietra. Personalmente, non ho mai eseguito un mosaico su bozzetto di un altro artista.

Matilda Tracewska, Istanbul, cm 100×80, marmo, oro, wedi board, 2009

Adesso, più conosco il mosaico, più mi è difficile rispondere alla domanda “che cos’è?”. Per me, comunque, il suo aspetto più importante è sempre quello pittorico, cioè legato alle sue potenzialità cromatiche e alla texture. Ho scoperto che la cosa che più mi attira nell’arte musiva è la magia del colore, o, più precisamente, il concetto di colore dinamico che nel mosaico è molto accentuato. Per colore dinamico intendo il fenomeno percettivo causato dalla miscela ottica, ma soprattutto il fatto che nel mosaico il colore cambia a seconda della posizione dello spettatore e a seconda della fonte di luce. E la capacità del mosaico stesso di creare la luce. Mi piace combinare i materiali diversi dello stesso colore, giocare sui contrasti tra lucido e opaco. Uso prevalentemente l’andamento regolare, ma trovo gusto nel lavorare non solo con le tessere quadrate ma anche con le schegge, cercando di ottenere la tessitura morbida e il colore leggero e luminoso, con le sfumature delicate. Non voglio però limitare i miei mosaici al solo esercizio stilistico. Per me il mosaico, come l’arte in generale, è soprattutto un mezzo di comunicazione. Dietro ogni mio pezzo c’è quindi una storia, così per esempio Istanbul racconta la malinconia, la serie Trompe l’œil invita al gioco del “nascondino”, mentre la serie Black Square è una riflessione sull’immagine residua e sul rapporto fra l’arte figurativa e l’arte astratta.

Matilda Tracewska, Setaccio, dalla serie “Trompe l’oeil”, marmo, legno, styrodur, 2010

Sei fra i collaboratori di Koko Mosaico come di altri laboratori musivi, oltre ad essere stata in Russia presso Solo Mosaico: che progetti hai per il presente e, più in generale, per il tuo futuro?

Ho passato gli ultimi sei mesi in Oman dove ho lavorato in un cantiere, sempre in ambito musivo. Sembra che la mia Odissea di quattro anni stia finendo e finalmente sto per tornare a Varsavia, anche se so che tra qualche mese sarei già pronta per ripartire di nuovo. Intanto spero di aver imparato abbastanza per poter portare avanti la mia ricerca da sola: ho grande desiderio di diffondere l’arte musiva nel mio Paese. Spero anche di mantenere e coltivare le amicizie che ho fatto a Ravenna: durante il mio soggiorno in Italia ho avuto la fortuna di conoscere gente stupenda, artisti bravissimi e cari amici, a cui devo molto. Ho sempre pensato di essere molto fortunata. Ravenna è stata molto generosa con me, avendomi dato, oltre alla formazione professionale, anche la possibilità di fare mostre in posti bellissimi (come il Museo Carlo Zauli), di imparare, attraverso collaborazioni, direttamente da artisti e artigiani fra i più validi… e di viaggiare: ho realizzato un mosaico a Cuba, grazie a Solo Mosaico ho trascorso sei mesi di residenza d’artista a San Pietroburgo per poi a partecipare alla Biennale di Mosca col progetto “Reliquarium”, mentre con “Bibliomosaico” ho partecipato ad una mostra in Francia. Nonostante abbia vissuto tutte queste esperienze, continuo a sentire di essere solo all’inizio della mia strada artistica. Sono però convinta, come lo sono stata sempre, di essere sulla strada giusta.

Info e contatti: mati_t@o2.pl

Matilda Tracewska, Battipanni, dalla serie “Trompe l’oeil”, marmo, rete, 2010

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Tiziano Vecellio, Ritratto di Pietro Aretino, 1545, Galleria Palatina, Palazzo Pitti, Firenze

Avendo io, signor compare[1], con ingiuria della mia usanza, cenato solo o per dir meglio, in compagnia dei fastidi di quella quartana che più non mi lascia gustar sapore di cibo veruno, mi levai da tavola, sazio della disperazione con la quale mi ci posi. E così appoggiate le braccia in sul piano della cornice della finestra e sopra di lui abbandonato il petto e quasi il resto di tutta la persona, mi diedi a riguardare il mirabile spettacolo che facevano le barche infinite, le quali piene non men di forestieri che di terrazzani[2], ricreavano non pure i riguardanti, ma esso Canal Grande, ricreatore di ciascun che il solca. (…)

E mentre queste turbe e quelle con lieto applauso se ne andavano alle sue vie, ecco ch’io, quasi uomo che fatto noioso a se stesso non sa che farsi della mente, nonché dei pensieri, rivolgo gli occhi al cielo; il quale da che Iddio lo creò, non fu mai abbellito da così vaga pittura di ombre e di lumi; onde l’aria era tale, quale vorrebbono esprimerla coloro che hanno invidia a voi, per non poter essere voi, che vedete nel raccontarlo io: in prima i casamenti , che benché sien pietre vere, parevan di materia artificiata; e di poi scorgete l’aria, che io compresi in alcun luogo pura e viva, in altra parte torbida e smorta. Considerate anco la meraviglia ch’io ebbi de’ nuvoli composti d’umidità condensa, i quali in la principal veduta, mezzi si stavano vicini a’ tetti degli edifizi e mezzi nella penultima, perocché la diritta era tutta d’uno sfumato pendente in bigio nero. Mi stupii certo del color vario di cui essi si dimostravano. I più vicini ardevano con le fiamme del fuoco solare, ed i più lontani rosseggiavano d’uno ardore di minio non così bene acceso. Oh con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in là, discostandola dai palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel far de’ paesi. Appariva in certi lati un verde azzurro, ed in alcuni altri un azzurro verde, veramente composto dalle bizzarrie della natura, maestra dei maestri. Ella con i chiari e con i scuri sfondava e rilevava in maniera ciò che le pareva di rilevare e di sfondare, che io, che so come il vostro pennello è spirto de’ suoi spiriti;  e tre e quattro volte esclamai: oh, Tiziano dove siete mò? Per mia fe’ che se voi aveste ritratto ciò ch’io vi conto, indurreste gli uomini nello stupore che confuse me: che nel contemplare quel che v’ho contato ne nutrii l’animo, che più non durò la meraviglia di siffatta pittura.

Di maggio, in Venezia, 1544

Pietro Aretino (Arezzo, 1492 – Venezia, 1556), dalle Lettere (in sei volumi pubblicati a Venezia dal 1538 al 1557. L’edizione di riferimento è quella postuma curata da Matteo il Maestro, Parigi 1609).


[1] Destinatario della lettera è Tiziano Vecellio, il grande pittore e amico dell’Aretino.

[2] I veneziani in quanto abitanti di terra ovvero “terrazzani”.

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Pittore dell’Italia Centrale, Città ideale (particolare), 1470/1480/1490, Galleria Nazionale delle Marche, Urbino

Per fare una grande mostra occorrono pochi ma selezionati pezzi: solo così è possibile concentrarsi su essi e sulle ragioni dell’esposizione. Che noia, invece, l’esibizione in eventi temporanei di decine e decine, spesso ben oltre il centinaio, di opere (neanche si fosse ad una fiera), due terzi delle quali di medio/basso valore, utili solo a gettare fumo negli occhi del visitatore per coprire il poco arrosto a disposizione.

Tutto il contrario di La città ideale – L’utopia del Rinascimento a Urbino, sicuramente una delle più belle mostre dell’anno, ancora in corso sino al prossimo 8 luglio al pianterreno del Palazzo Ducale urbinate, più che mai contenitore e opera centrale esso stesso: in totale una cinquantina di oggetti di primissimo ordine fra disegni, tarsie lignee, incisioni, codici miniati e manoscritti, medaglie e dipinti, fra cui due delle tre versioni note della cosiddetta Città ideale (per problemi conservativi non è stato possibile spostare quella berlinese, purtroppo in condizioni precarie).

Basterebbero la serie strepitosa delle tarsie (da completarsi, ça va sans dire, ai piani superiori del Museo con lo Studiolo del Duca) o le teche coi codici di Piero della Francesca, Francesco di Giorgio Martini e Leon Battista Alberti a dire del clima di rapporto aureo (come la celebre “sezione” e l’ossessione che ne deriva) fra ogni ambito del pensare/fare artistico/artigiano e l’architettura, che Federico da Montefeltro seppe creare chiamando nella sua amatissima capitale umanisti e artisti di ogni genere in grado di farla diventare in quel secondo ‘400 il vero e proprio centro del “rinascimento matematico”, secondo la definizione di André Chastel. In questo senso assai significativa risulta la presenza del ritratto del frate matematico Luca Pacioli (anch’egli da Sansepolcro, come il suo amico Piero) del misterioso Jacopo de’Barbari.

Erano tutti uomini convinti che Dio fosse il sommo matematico-architetto e che l’uomo potesse partecipare della Sua perfezione grazie all’intelletto che lo rendeva essere unico e superiore nel creato. L’arte (con la “divina proporzione” e le leggi della prospettiva) ne era conseguenza diretta.

Prezioso il confronto fra i Miracoli di San Bernardino di anonimo d’ambito perugino, La nascita della Vergine di Fra’ Carnevale (una delle due stupende Pale Barberini), le Flagellazioni di Piero e del Signorelli, la predella della pala Oddi di Raffaello, i bulini e le chine bramantesche (inclusa quella più tarda del Barocci su San Pietro in Montorio, con quei colpi di biacca in anticipo di due secoli sul vedutismo settecentesco), tutte opere qui considerate anzitutto dal punto di vista delle architetture in esse raffigurate. Ed è incredibile quanta strada si sia fatta in pochissimi decenni se si pensa alla prima sala aperta col gusto ancora tardogotico e medievale del Sassetta o di Nicola di Ulisse, benché già in pieno XV secolo.

Pittore dell’Italia Centrale, Città ideale, 1470/1480/1490, Walters Art Gallery, Baltimora

Infine, una nota personale sulle tavole che danno titolo all’esposizione: conosco due delle valenti chimiche che hanno effettuato le analisi su di esse qualche mese fa ed essendomi appassionato alla questione dell’identikit del loro autore ho cominciato una serie di supposizioni con scambio di e-mail. Come si evince dall’ottimo (ma costoso!) catalogo, si tratta di tempere e non di opere ad olio, cosa che, vista la datazione, conferma anche dal punto di vista tecnico una produzione inerente l’Italia centrale, fra i poli di Urbino e Firenze per la precisione (sebbene opere di maestri delle Fiandre circolassero nella capitale medicea sin dai tempi di Cosimo il Vecchio, fu a Venezia che per prima si diffuse l’uso dell’olio dei fiamminghi anche grazie al tramite di Antonello da Messina). A proposito, di che anni si tratta? Siamo fra i ’70 e gli ’80 del ‘400 (basti vedere certe somiglianze non casuali con le tarsie coeve dello Studiolo ducale e non è mancato chi in passato ha indicato per questo e per quelle l’unico nome di Baccio Pontelli), che le schede in catalogo a cura di Alessandro Marchi estendono sino ai ’90, forse possibili per quanto riguarda le figurine di Baltimora aggiunte in un secondo tempo come aveva suggerito Federico Zeri nelle pagine relative in Italian Paintings in the Walters Art Gallery (vol.1, Baltimore, 1976).

Non è chiaro se facessero parte di una stessa serie, forse servivano come spalliere, nulla è sicuro, tranne la loro più che probabile riconducibilità alla corte “matematica” urbinate, atmosfera di cui sono intimamente intrise.

Peraltro, sul retro della tavola tuttora a Urbino si legge “di S. Chiara XXXIX. Urbino”, da intendersi come il monastero francescano dove probabilmente l’aveva portata una delle figlie del duca Federico, Elisabetta, che lì si ritirò. In seguito l’opera venne registrata col numero romano 39: purtroppo è disperso l’inventario, che per certo avrebbe aiutato l’indagine.

Nel 1775 Michelangelo Dolci la riscoprì presso le clarisse assegnandola al Bramante, curiosamente come una delle attribuzioni più recenti (2009) dovuta a Luciano Bellosi, lo storico dell’arte scomparso lo scorso anno.

Francesco di Giorgio Martini, Teatro romano (pianta e alzato) dal “Trattato di architettura civile e militare”, anni ’80 del XV sec., Biblioteca Laurenziana, Firenze

Anch’io sono convinto del fatto che dietro alle tre città ideali ci sia la mente di un architetto e va ricordato che al tempo non era inusuale rivolgersi a questa categoria anche per decorazioni e pitture.

Così, in un primo tempo avevo pensato a Francesco di Giorgio Martini sulla scorta di un disegno della Laurenziana nel suo Trattato di architettura civile e militare, ma viste le sue prove pittoriche decisamente senesi e così diverse, ho poi ragionato su Alberti e Laurana, teste plausibili ma mani impossibili da riconoscere e confrontare dal momento che non sono noti loro dipinti. Tengo a sottolineare che non sto attribuendomi i meriti d’aver avanzato per primo i nomi di tali artisti: c’è una letteratura lunga oltre un secolo che almanacca su di essi. A proposito, c’è anche chi ha parlato di Giuliano da Sangallo.

C’è poi l’ipotesi Piero, pittore intimamente connesso con l’architettura (del reale anzitutto). Già, la luce zenitale di Piero col suo portato irreale in senso matematico, ma rivedendo le tre Città c’è più di qualche elemento nelle dimensioni degli edifici e nei colori stessi che non mi convince in senso autografo (così come scarterei Fra’ Carnevale, altro nome proposto dalla critica).

Certo, chi le ha realizzate doveva conoscere cose e teorie pierfrancescane, albertiane, brunelleschiane, vitruviane, doveva aver visto Roma e Firenze (come testimoniano in particolare le strutture ritratte in Baltimora) e aver respirato l’aria urbinate.

Insomma, concludere su una attribuzione certa è e credo sarà sempre impossibile. Questi dipinti sono figli di un’epoca, di idee e di un’area territoriale ben precise, questo solo è possibile affermare.

Riparlando di recente con una delle mie amiche chimiche, non è affatto da escludere (anzi!) che mente (d’architetto, di questo resto convintissimo) e mano esecutrice siano diverse. Non solo: guardando per la prima volta dal vero Baltimora e Urbino l’una di fronte all’altra, ho avuto la sensazione netta che anche le mani da quadro a quadro fossero diverse, rese simili solo dal progetto pensato da un unico (altro?) cervello.

La città ideale – L’utopia del Rinascimento a Urbino 

Ps. Petite madeleine: qualche giorno fa, in auto verso Urbino con Silvia e il piccolo Niccolò ho messo su un po’ di musica. Nel mix c’erano un paio di canzoni di Dalla, lo stesso cantautore che mio padre mi faceva ascoltare più di trent’anni fa, durante i lunghissimi viaggi verso sud.

Ho pensato, non senza un brivido di commozione, “ora tocca a me”.

Pittore dell’Italia Centrale, Città ideale, 1470/1480/1490, Staatliche Museen Gemӓldegalerie, Berlino

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