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Archive for novembre 2010

Gian Lorenzo Bernini, L'estasi o transverberazione di Santa Teresa d'Avila (particolare), 1647-51, Cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria, Roma

“La man che ne le dita ha le quadrella/ con duro laccio al molle tergo è avvolta…, sono versi di Anton Giulio Brignole Sale, patrizio e letterato genovese del primo ‘600 e si riferiscono alle pratiche sadomasochiste che egli intratteneva con la moglie, Paola Adorno, entrambi ritratti superbamente da Van Dyck, in posa convenientemente ufficiale, s’intende. Per dovere di cronaca, aggiungo che la povera Paola, dalle e ridalle, un brutto giorno restò sotto i colpi delle quadrella (un tipo di pugnale), ormai esangue. E fu così che Anton Giulio si convertì a vita più morigerata e lasciò questo mondo in veste di gesuita.

Questa storia è rappresentativa della sensualità secentesca, giocata spesso sul confine, quanto mai labile, fra massimo del profano e altezze del sacro: vanno da sé i rimandi alle illusioni/allusioni berniniane dei volti e dei corpi femminili in pieno godimento di Santa Teresa d’Avila transverberata e della Beata Ludovica Albertoni morente, rispettivamente in Santa Maria della Vittoria e in San Francesco a Ripa a Roma.

Un erotismo teatralmente allegorico, su cui soffiano venti insieme ultraterreni e non, che agitano le vesti e le carni marmoree del Bernini, come le metafore dei versi del Marino o quelli saffici di suor Juana Inés de la Cruz, la posa e il sorriso dell’Amor vincit omnia di Caravaggio o le pagine avventurose della vita di Cristina di Svezia (lesbica dichiarata, ma in quanto ex regina ed ex protestante convertita al cattolicesimo, sepolta addirittura in San Pietro), dunque modus tipico di un secolo che Manzoni definirà sudicio e sfarzoso: del resto, non è forse l’epoca delle Marianne de Leyva, monacate a forza e non solo a Monza?

Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Amor vincit omnia, 1602, Staatliche Museen, Berlino

Sotto tonache e drappi, sotto le prime parrucche di stato e pulci, meno ufficiali ma diffuse senza distinzione di classe, il bel mondo aristocratico, prelatizio e borghese, come il popolino di bische e tavernacce bamboccianti, cercava come poteva di passarsela, nei limiti di guerre, pestilenze e proclami inquisitori e anche l’arte la scienza e la filosofia procedevano fra luci di intuizioni fertilissime e ombre nere di caligine, fra il rogo di Giordano Bruno e le scoperte di Galileo e Keplero, basilari per Newton, mentre Reni, sviluppando la lezione classicista dei Carracci, dipingeva divinità umanate (Flavio Caroli) dai corpi perfetti, diafani, talvolta nudi e sempre puri, col rossore appena accennato delle gote, e il maudit Caravaggio consumava la sua parabola esistenziale e pittorica inventando, grazie ad un gioco di specchi e camere oscure, il teatro iperrealista della sua maturità, violento e pietoso, borromaico e inarrivabile per novità capite da pochi all’atto di nascita e imitate da tutti in seguito.

Guido Cagnacci (1601-1663), La morte di Cleopatra, Kunsthistorisches Museum, Vienna

Questi due estremi, Caravaggio e Reni, sono anche i poli attrattivi del santarcangiolese Guido Cagnacci (1601-1663), partito come figlio di un conciapelli e in viaggio costante fra Rimini, Forlì, Bologna, Roma, Venezia e Vienna, dove finirà i suoi giorni presso la corte di Leopoldo I d’Asburgo, dopo aver dipinto e soprattutto amato molto, talvolta costretto alla fuga per amore, anima romagnola passionale e rissosa, come si conviene ai tempi di lame facili in cui visse.

La sua figura, già rivalutata una cinquantina d’anni fa da Arcangeli e Gnudi, è stata oggetto nel 2008 di una mostra forlivese con studi critici rinnovati, a cura di Daniele Benati e Antonio Paolucci, in cui decine di opere sacre e laiche del Cagnacci venivano messe in relazione a diverse tele di suoi contemporanei, maestri ideali e non, quali il Merisi e alcuni caravaggeschi come Van Honthorst, Vouet, Serodine e i Gentileschi, e soprattutto, sul versante emiliano-romano, Lanfranco, Reni e Guercino.

Una selva di influenze da cui Cagnacci riuscì a ricavare una cifra propria, quella della sensualità all’interno del binomio vincente eros-thánatos: tipicamente cagnaccesche infatti e ben più delle pudiche commissioni religiose sparse per la Romagna, sono sante ed eroine come le Maddalene penitenti, le Lucrezie o le Cleopatre morenti, che tanto successo ottennero anche presso la corte asburgica, coi loro capelli sciolti, labbra rosse e semiaperte, pelli chiare, seni turgidi e scoperti, modelle probabilmente amate dal pittore e consegnate alla storia in attimi di contrizione sospesa fra languore di lacrime, morte sopravvenente e carnalità decisamente più terrene, spesso sedute su “seggioloni finto-Cinquecento di pelle rossa, con le loro borchie” (Alberto Arbasino), accessori che forse non sarebbero spiaciuti a Gianni Versace o alla Westwood degli esordi.

Teatro e maraviglia, mistica e lubricità, corpi d’arte pruriginosi, colmi d’erotismo e porte per un oltre divino così desiderato da trovare espressione piena, anzi coincidenza col piacere estremo, il più forte conosciuto dall’uomo, quello sessuale.

Guido Cagnacci (1601-1663), Maddalena svenuta, Galleria Nazionale d'Arte Antica di Palazzo Barberini, Roma

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Marco Petrus, Corso Sempione, 1998, coll. priv.

Nessuno ma tornano (I)

In fondo al sottoscala ci sono ossa di animali,/ toccate una per volta. Noi ci svegliamo/ sopra uno sgabello e sappiamo concretezza/ di vivere: nel finimondo rimane questa bocca,/ questa stagione cava che ha spille di carnevale/ e slancio di dolore, mentre gli ascensori/ continuano, come giaculatorie. Piove forte./ Tutto il drappello si sbriglia/ tra una panetteria e l’altra, bersagliato dai sassi.

Milo De Angelis, da Terra del Viso (1985), in Poesie (Milano, 2008)

Marco Petrus, Casa del Vento, 2009, coll. priv.

L’oceano intorno a Milano

(I) Milano lì davanti, lì davanti/ come un’idea a perpendicolo/ o uno sbocco di sangue/ nel centimetro più lungo tra le tempie/ guardiamo i pianeti della fortuna,/ le scatolette che ci danno un confine/finché una strada ci conduce/ nel colloquio straniero/ mendicanti di hotel/ con l’idea e lo scisma dell’idea.

(IV) Vita è solo vita/ e non ci lascia prima di comprendere/ e batte sui segnatempo, sull’inverno/ intuito dalla scorsa mente. I camion/ restano lì, spirituali. Ora una città/ ci aziona il respiro.

(V) Ed è Milano: silenzio che chiama le cose,/ nostro diritto naturale, la stessa sensazione/ degli occhi che cercano un’orbita/ finché un passaggio obbligato tra le macerie/ ci porta il battito/ oltre l’Idroscalo, all’ombra dei reattori/ ci divide in memoria e mandragola/ ci sprofonda nel sangue senza musica.

Milo De Angelis, da Biografia sommaria (1999), in Poesie (Milano, 2008)

Marco Petrus, Torre, 2007, coll. priv.

Italian Factory – Marco Petrus

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Interno del Teatro lirico Alla Scala di Milano, inaugurato il 3 agosto 1778 (progetto originario dell'architetto Giuseppe Piermarini)

Meneghino: «Demm donca a trà, che ve dirò d’i coss/ che ve faran servizij./ Son stàe alla guerra an mì/ e so comè la va. Ve cuntarò/ tutta l’istoria de sta vitta braeva/ dalla raeva alla faeva./ E no guardé, che sia on tàe badin/ che no sa lesg nè scrivv,/ se ben no g’ho scricciura nè latin/ in la cà della tegna,/ chi paerla par amor, l’amor gh’insegna.»

(Meneghino: «Datemi dunque attenzione, che vi dirò delle cose/ che vi faranno servizio./ Sono stato anch’io alla guerra/ e so come va. Vi conterò/ tutta la storia di questa vita brava/ dalla rava alla fava./ E non guardate se sono un tapino/ che non sa né leggere né scrivere,/ se anche non ho né scrittura né latino/ nella casa della tigna,/ chi parla per amor, l’amor gl’insegna.»)

Carlo Maria Maggi, da I consigli di Meneghino (atto I, scena II), 1697

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I paroll d’on lenguagg, car sur Gorell,/ hin ona tavolozza de color,/ che ponn fà el quader brutt, e el ponn fà bell/ segond la maestria del pittor.// Senza idej, senza gust, senza on cervell/ che regola i paroll in del descor,/ tutt i lenguagg del mond hin come quell/ che parla on sò umilissim servitor//  e sti idej, sto bon gust già el savarà/ che no hin privativa di paes,/ ma di coo che gh’han flemma de studià:// tant l’è vera che in bocca de Usciuria/ el bellissem lenguagg di Sienes/ l’è el lenguagg pù cojon che mai ghe sia.

(Le parole di una lingua, caro signor Gorelli,/ sono una tavolozza di colori,/ che possono fare il quadro brutto, o farlo bello,/ a seconda del talento del pittore.// Senza idee, senza gusto, senza un cervello/ che regoli le parole nel discorso,/ tutti i linguaggi del mondo son come quello/ che parla un suo umilissimo servitore:// e queste idee, questo buon gusto già lo saprà/ che non sono privilegio di un paese,/ ma delle teste che hanno voglia di studiare:// tant’è vero che in bocca a Vossignoria/ il bellissimo linguaggio dei Senesi/ è il linguaggio più coglione che ci sia.)

Carlo Porta, I paroll d’on Lenguagg car sur Gorell, 1810

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Cecch: «Minga domà i codegh ghe mangi, ma on porscell intrighi s’el voeur! (…) Ma che famm, che famm d’Egitt! L’è la forza natural che gh’ho in del sangu! Mi coi mè  settant’ann sui spall, sont pussee giovin de lú! La generazion che ven su adess l’è tutta da strasc!»

(Cecch: «Non mangio mica soltanto le cotiche, ma un maiale intero se lei vuole! (…) Ma che fame, che fame d’Egitto! È il vigore che ho nel sangue! Io, con i miei settant’anni sul groppone, sono più giovane di lei! La gioventù oggi è tutta da buttare allo straccivendolo!»)

Carlo Bertolazzi, da El nost Milan: la povera gent (atto III, scena I), 1893

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Trâ, ‘me ‘na s’giaffa salti trì basèj,/ e passi in mezz a l’aria, al ver teater/ che l’è mè pàder ‘me sarà nel temp,/ e schitti, curri, e ‘l sbatt che fa la porta/ l’è cume l’aria che me curr adré./ A trì, a quatter, al sping de la linghéra,/ mì vuli i scal e rivi al campanèll./ Mia mama, adasi, la sciavatta e derva,/ mè pader rìd, e mì me par per nient.

(Gettato, come uno schiaffo salto tre gradini,/ e passo in mezzo all’aria, al vero teatro/ che è mio padre come sarà nel tempo,/ e scatto, mi affretto rapido, e lo sbattere che fa la porta/ è come l’aria che m’insegue dietro./ A tre, a quattro, alle spinte della ringhiera, / io volo le scale giungo al campanello./ Mia madre, adagio, ciabatta e poi apre,/ mio padre ride, e a me sembra per niente.)

Franco Loi, da Stròlegh (Torino, 1975)

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Alba Mediolanum in Galvano Fiamma, Chronica de antiquitatibus civitatis Mediolani, prima metà del XIV sec., Biblioteca Trivulziana, Milano

 

“Considerata in rapporto alla sua posizione, la nostra fiorentissima città è famosa perché situata in una bella, ricca e fertile pianura, dove il clima è temperato e fornisce tutto quanto è necessario alla vita umana, tra due mirabili fiumi equidistanti, il Ticino e l’Adda: non senza ragione essa assunse il nome di Mediolanum, come a dire che si trova come una lingua in mezzo ai due fiumi. Alcuni però stranamente affermano che essa prese il nome Mediolanum da un porco che vi fu trovato con il dorso coperto in mezzo di lana. Anticamente questa città fu anche chiamata Alba perché, essendo la meno macchiata di vizi, brillava più di tutte le altre con fulgente candore. La Storia Lombarda narra che essa fu fondata dai Galli: perciò alla sua regione diedero il nome di Gallia Cisalpina.”

Bonvesin de la Riva, De magnalibus Mediolani (1,I), 1288 (trad. di Giuseppe Pontiggia, Milano, 1974)

 

Duomo di Milano

 

“Renzo, salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del Duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava meraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino. Ma dopo qualche momento, voltandosi indietro, vide all’orizzonte quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra quelle il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sangue, stette lì alquanto a guardar tristamente da quella parte, poi tristamente si voltò, e seguitò la sua strada. A poco a poco cominciò poi a scoprir campanili e torri e cupole e tetti; scese allora nella strada, cammino ancora qualche tempo, e quando s’accorse d’esser ben vicino alla città, s’accostò a un viandante, e, inchinatolo, con tutto quel garbo che seppe, gli disse: «di grazia, quel signore».”

Alessandro Manzoni, I promessi sposi (cap. XI), 1840-42

 

Umberto Boccioni, La città che sale, 1910-11, MoMA, New York

 

“Milano è come la punta di un iceberg.

Sotto, immensa, c’è la sua storia. Ogni tanto un’onda ne scopre un frammento, prima che le acque, nell’opera di corrosione inarrestabile che questa città si è proposta per esistere sempre presente a se stessa, nel presente, lo riportino sotto. (…)

Milano non ne vuole sapere di essere se stessa.

Sta diventando sempre qualcos’altro.

Ci arrivi, decidi di passeggiarci, passeggi in un perenne cantiere e pensi a quando sarà finito.

Il cantiere.

La città.

Ma non finiscono mai, il cantiere, la città, e continuano a cambiare.”

Aldo Nove, Milano non è Milano (Bari, 2004)

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Francesco Borromini, Cupola di San Carlo alle Quattro Fontane, 1638-41, Roma

“Barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine.” Carlo Emilio Gadda

Ci sono saggi che possono cambiare la visione della vita, la percezione del circostante e noi stessi in relazione al circostante (a patto, poi, di viverla la vita): Guardare, Ascoltare, Leggere di Claude Lévi-Strauss, Le parole e le cose di Michel Foucault, Il gesto e la parola di André Leroi-Gourhan e le molte pagine di Marcel Mauss, Peter Brook, Emile Cioran… (senza contare poeti e romanzieri).

Altri maestri ampliano la conoscenza, aprendo finestre nuove sull’immagine e l’essere profondo dell’uomo, per domande nuove, sempre più importanti delle risposte: la Alpers, Stoichita, Bataille, Dorfles, Zeri, Sedlmayr, Warburg, Wind, Settis, Focillon, Ruggero Pierantoni, Flaminio Gualdoni, Emilio Villa, Yeshayahu Leibowitz, Pavel Florenskij, Gilbert Durand, Elémire Zolla, Marius Schneider, Agostino, Chuang-Tzu, Epitteto, Lucrezio, Pascal, Rūmī e i mistici d’occidente, Franco Farinelli, Ernesto De Martino, Giovanni Semerano, Bachtin, Barthes, Debord, Bauman, Benoit Mandelbrot, Fritjof Capra…(senza contare artisti e musicisti in particolare).

Barocco moderno: Roberto Longhi e Carlo Emilio Gadda (Milano, 2003) di Ezio Raimondi, si colloca a metà fra questa seconda categoria intellettuale e una terza, di riscoperta dei classici del nostro tempo: in 180 pagine vengono ripercorse le intuizioni stilistiche e di pensiero di due grandi autori, l’uno, Roberto Longhi (Alba, 1890 – Firenze, 1970), su cose d’arte, essendo il grande critico che è stato (purtroppo anche un uomo terribilmente meschino, come ebbe a ricordare più volte Zeri, ma qui interessa principalmente lo scrittore), oltre che uno dei maestri di Raimondi, l’altro, Carlo Emilio Gadda (Milano, 1893 – Roma, 1973), o meglio l’ingegnere, su tutto ciò che ha scritto, essendo il genio letterario più grande di tutti, nonché l’autore più importante del ‘900 italiano: basti La cognizione del dolore (1963) a renderne testimonianza imperitura.

Caravaggio, Ragazzo morso da un ramarro, metà anni ’90 del XVI sec., Fondazione Longhi, Firenze

Raimondi tesse con incanto i punti di avvicinamento e gli sviluppi differenti dei due, anzitutto partendo dall’amore condiviso per la luce (e le ombre) in Caravaggio e l’ironia sublime del Manzoni dei Promessi, romanzo non a caso ambientato nel ‘600, purtroppo studiato per obbligo a scuola, perciò condannato alla iattura di non trovare i dodici lettori cui “don Alessandro” idealmente si rivolgeva.
Il mondo è cosa barocca: etimologicamente (barocco: sillogismo strano o pietra irregolare) e ontologicamente, come ha intuito Gadda: la forma stessa delle verdure, di certi animali gibbosi o delle nostre ossa, i loro nomi, le parole stesse. E altrettanto la vita è groviglio complesso, enorme, imperfetto, matassa barocca piena di cavità, insenature, gole nascoste, le cui ombre sono percettibili poiché definite dal desiderio della luce di arrivare: un non finito per natura, né finibile con la sola banalità, immensità della (nostra) morte.

Dunque il romanzo, lo scrivere, come il produrre di tanta arte novecentesca, riflettendo la vita e sulla vita, non può che essere, per estensione, altrettanto aggrovigliato, spesso coerentemente non concluso, come in Gadda o nell’Uomo senza qualità di Musil, altro autore magistralmente affrontato da Raimondi, ed entrambi, Gadda e Musil, percorsi da una vena amara-ironica inesauribile, dovuta alla constatazione stessa di com’è, appunto, la vita: persino Longhi ha più di qualche sferzata ironica, quando non di sarcasmo aperto.

E tornando ai carsismi barocco-novecenteschi, non possono che venire in mente gli “sfregi” finissimi d’infinito di un Fontana e prima ancora le sue ceramiche-sculture, come del resto le figure di cenere di Giacometti, che le parole di Yves Bonnefoy, nel meraviglioso Osservazioni sullo sguardo (Roma, 2003), confrontano all’opposto con le immagini picassiane e morandiane, altri paradigmi vitali e, per certi versi, dolorosi del secolo XX, ormai definibile a pieno titolo come età del barocco moderno.

Alberto Giacometti fotografato da Henri Cartier-Bresson nella Galleria Maeght di Parigi, 1961

Fondazione Roberto Longhi

Carlo Emilio Gadda.net

Centro studi Carlo Emilio Gadda – Longone al Segrino

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