“La man che ne le dita ha le quadrella/ con duro laccio al molle tergo è avvolta…”, sono versi di Anton Giulio Brignole Sale, patrizio e letterato genovese del primo ‘600 e si riferiscono alle pratiche sadomasochiste che egli intratteneva con la moglie, Paola Adorno, entrambi ritratti superbamente da Van Dyck, in posa convenientemente ufficiale, s’intende. Per dovere di cronaca, aggiungo che la povera Paola, dalle e ridalle, un brutto giorno restò sotto i colpi delle quadrella (un tipo di pugnale), ormai esangue. E fu così che Anton Giulio si convertì a vita più morigerata e lasciò questo mondo in veste di gesuita.
Questa storia è rappresentativa della sensualità secentesca, giocata spesso sul confine, quanto mai labile, fra massimo del profano e altezze del sacro: vanno da sé i rimandi alle illusioni/allusioni berniniane dei volti e dei corpi femminili in pieno godimento di Santa Teresa d’Avila transverberata e della Beata Ludovica Albertoni morente, rispettivamente in Santa Maria della Vittoria e in San Francesco a Ripa a Roma.
Un erotismo teatralmente allegorico, su cui soffiano venti insieme ultraterreni e non, che agitano le vesti e le carni marmoree del Bernini, come le metafore dei versi del Marino o quelli saffici di suor Juana Inés de la Cruz, la posa e il sorriso dell’Amor vincit omnia di Caravaggio o le pagine avventurose della vita di Cristina di Svezia (lesbica dichiarata, ma in quanto ex regina ed ex protestante convertita al cattolicesimo, sepolta addirittura in San Pietro), dunque modus tipico di un secolo che Manzoni definirà sudicio e sfarzoso: del resto, non è forse l’epoca delle Marianne de Leyva, monacate a forza e non solo a Monza?
Sotto tonache e drappi, sotto le prime parrucche di stato e pulci, meno ufficiali ma diffuse senza distinzione di classe, il bel mondo aristocratico, prelatizio e borghese, come il popolino di bische e tavernacce bamboccianti, cercava come poteva di passarsela, nei limiti di guerre, pestilenze e proclami inquisitori e anche l’arte la scienza e la filosofia procedevano fra luci di intuizioni fertilissime e ombre nere di caligine, fra il rogo di Giordano Bruno e le scoperte di Galileo e Keplero, basilari per Newton, mentre Reni, sviluppando la lezione classicista dei Carracci, dipingeva divinità umanate (Flavio Caroli) dai corpi perfetti, diafani, talvolta nudi e sempre puri, col rossore appena accennato delle gote, e il maudit Caravaggio consumava la sua parabola esistenziale e pittorica inventando, grazie ad un gioco di specchi e camere oscure, il teatro iperrealista della sua maturità, violento e pietoso, borromaico e inarrivabile per novità capite da pochi all’atto di nascita e imitate da tutti in seguito.
Questi due estremi, Caravaggio e Reni, sono anche i poli attrattivi del santarcangiolese Guido Cagnacci (1601-1663), partito come figlio di un conciapelli e in viaggio costante fra Rimini, Forlì, Bologna, Roma, Venezia e Vienna, dove finirà i suoi giorni presso la corte di Leopoldo I d’Asburgo, dopo aver dipinto e soprattutto amato molto, talvolta costretto alla fuga per amore, anima romagnola passionale e rissosa, come si conviene ai tempi di lame facili in cui visse.
La sua figura, già rivalutata una cinquantina d’anni fa da Arcangeli e Gnudi, è stata oggetto nel 2008 di una mostra forlivese con studi critici rinnovati, a cura di Daniele Benati e Antonio Paolucci, in cui decine di opere sacre e laiche del Cagnacci venivano messe in relazione a diverse tele di suoi contemporanei, maestri ideali e non, quali il Merisi e alcuni caravaggeschi come Van Honthorst, Vouet, Serodine e i Gentileschi, e soprattutto, sul versante emiliano-romano, Lanfranco, Reni e Guercino.
Una selva di influenze da cui Cagnacci riuscì a ricavare una cifra propria, quella della sensualità all’interno del binomio vincente eros-thánatos: tipicamente cagnaccesche infatti e ben più delle pudiche commissioni religiose sparse per la Romagna, sono sante ed eroine come le Maddalene penitenti, le Lucrezie o le Cleopatre morenti, che tanto successo ottennero anche presso la corte asburgica, coi loro capelli sciolti, labbra rosse e semiaperte, pelli chiare, seni turgidi e scoperti, modelle probabilmente amate dal pittore e consegnate alla storia in attimi di contrizione sospesa fra languore di lacrime, morte sopravvenente e carnalità decisamente più terrene, spesso sedute su “seggioloni finto-Cinquecento di pelle rossa, con le loro borchie” (Alberto Arbasino), accessori che forse non sarebbero spiaciuti a Gianni Versace o alla Westwood degli esordi.
Teatro e maraviglia, mistica e lubricità, corpi d’arte pruriginosi, colmi d’erotismo e porte per un oltre divino così desiderato da trovare espressione piena, anzi coincidenza col piacere estremo, il più forte conosciuto dall’uomo, quello sessuale.