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Archive for gennaio 2011

Di mattino abbuio/ Di giorno attardo/ Di sera annotto/ Di notte ardo.// Ad ovest morte/ Gli vivo contro/ Del sud captivo/ Mio nord è l’est.// Gli altri computino/ Passo per passo/ Io muoio ieri// Nasco domani/ Vado ov’è spazio/ -Mio tempo è quando.” Vinicius de Moraes, Poetica I (trad. G. Ungaretti)

"La vita, amico, è l'arte dell'incontro" (copertina interna del disco)

Nell’Italia, anzi nella Roma del 1969 Sergio Bardotti produceva per la mitica Fonit Cetra un disco come La vita, amico, è l’arte dell’incontro, un piccolo miracolo di poesia e delicatezza sin dalla copertina, coi nomi dei protagonisti sul disegno di una chitarra chiara, che al suo centro vuoto, in due gradazioni d’arancio, ricorda un sole caldo (forse al tramonto).

Poesie e canzoni sono di Vinicius de Moraes, cantate dallo stesso autore, che alterna la sua voce a quella del meraviglioso Sergio Endrigo, interprete di alcune tracce, mentre i versi si fregiano della traduzione e della recitazione di un amico di de Moraes, con cui s’erano conosciuti in Brasile nel lontano ’37, un certo Giuseppe Ungaretti. E scusate se è poco. Inconfondibile il modo di arrotare le consonanti, di insistere sulle singole lettere (l’osso e l’anima, le molecole e gli atomi del fare poetico, poietico) del vecchio leone, che volle partecipare come atto di omaggio e stima letteraria e umana verso un caro sodale, com’è detto nel titolo. Di lì a pochi mesi purtroppo, nel giugno del ’70, sarebbe scomparso.

Chi sono io se non un grande sogno oscuro di faccia al Sogno/ Se non oscura grande angustia di faccia all’Angustia/ Chi sono io se non quell’albero imponderabile dentro la notte/ Ferma con quegli appigli che risalgono al fondo più triste della terra?// Quale destino è il mio se non d’assistere al mio destino/ Fiume che sono in cerca del mare che m’impaura/ Anima che sono clamando il disfacimento/ Carne che sono nell’intimo inutile della preghiera?// (…) Che cos’è il mio amore?Se non il mio desiderio illuminato/ il mio infinito desiderio d’essere ciò che sono oltre me stesso/ Il mio eterno partire nella mia enorme volontà di restare/ Pellegrino, pellegrino di un istante pellegrino di tutti gli istanti?// Che cos’è il mio ideale se non il Supremo impossibile,/ Colui che è, e Lui solo; mio affanno e mio anelito,/ Che cos’è Lui in me se non il mio desiderio di incontrarlo/ E incontrandolo la mia paura di non riconoscerlo?// Che cosa sono se non Lui, Iddio nel patimento/ Il tremore impercettibile nella voce portentosa del vento/ il battito invisibile d’un cuore nella piana desolata…/ Che cosa sono se non Me stesso di faccia a me?…” Vinicius de Moraes, da La vita vissuta (traduzione di Giuseppe Ungaretti)

Ancora un paio di note musicali: arrangiamenti, direzione e piano sono del futuro premio Oscar Luis Bacalov e, soprattutto, una delle chitarre è affidata all’estro del giovane ma già grande Toquinho.

Fra i brani divenuti celebri, La casa col coro di bambini diretto da Nora Orlandi e Samba da benção o Samba delle benedizioni (de Moraes – Baden Powell), che apre e chiude il disco: questo pezzo in realtà era già noto in altre lingue, in particolare oltre all’originale portoghese, nella versione francese Samba Saravah riscritta e cantata da Pierre Barouh per la colonna sonora – musicata da Francis Lai – del film Un homme et une femme di Claude Lelouch, 1966, con Jean-Louis Trintignant e Anouk Aimée.

Vinicius de Moraes – sito ufficiale

Sergio Endrigo – sito ufficiale

Ps. Con questo post il blog chiude temporaneamente, ci rivediamo a Febbraio. Saluto e ringrazio lettori e aficionados, L.M.

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Premessa: dopo le critiche nei confronti delle nuove generazioni di artisti musivi, sostanzialmente ritenute non valide, se non inesistenti, da parte del pubblicista Saturno Carnoli e del mosaicista Carlo Signorini (entrambi classe 1941), interventi apparsi fra novembre e dicembre 2010 sul settimanale Ravenna & Dintorni e, fra i due, la mia intervista (anch’essa pubblicata sul medesimo giornale il 2 dicembre scorso e di seguito su questo blog) in difesa del giovane mosaico -che non solo ritengo esista ma che operi con rinnovata originalità nell’ambito dell’arte contemporanea-, desidero ora ospitare l’opinione di Daniele Torcellini (mio coetaneo, classe 1978), docente di Ricerca Visiva presso l’Accademia di Belle Arti di Ravenna e collaboratore del Centro Internazionale di Documentazione sul Mosaico, visibile anche su Ravenna & Dintorni di questa settimana (numero 423 del 13 gennaio 2011), dove, a pag. 13, si trova affiancato dall’ottimo e consonante intervento Aprire gli occhi sul cambiamento di Maria Rita Bentini, coordinatrice didattica presso la medesima Accademia di Belle Arti ravennate.

Levi van Veluw, Veneer IV, 2010

“Leggendo le interviste pubblicate negli ultimi numeri di questo giornale a proposito delle vicende del mosaico ravennate propongo all’attenzione dei lettori alcune riflessioni, in qualità di docente dell’Accademia di Belle Arti di Ravenna della stessa generazione degli artisti chiamati in causa.

Perfettamente d’accordo con quanto detto da Signorini: “Se tutti coloro che sono delegati attualmente a gestire il patrimonio culturale-mosaico non passano la mano, ritengo che fra pochi anni resteranno solo le basiliche”. Certo è che per passare la mano occorre riconoscere la mano a cui passare. In qualche modo, però, il conflitto generazionale si mette in mezzo a complicare le cose, anche se ci sono molte buone eccezioni.

Riflettendo sull’interessante dibattito che si è andato sviluppando, come non notare che se Renato Signorini non apprezzava (non capiva?) i contatti (le sperimentazioni? le ricerche?) di suo figlio con altri artisti, come Scanavino o Schifano, così Carlo Signorini o Saturno Carnoli sembrano non cogliere (non capire?) quelle che sono le sperimentazioni e le ricerche dei giovani artisti ravennati e non solo…

Considerando le vicende del mosaico a Ravenna nel corso degli ultimi cinquant’anni un problema sembra essere stato al centro di molte dinamiche artistiche: un debito nei confronti dell’arte contemporanea, idee, opere, riviste, gallerie ed eventi da cui il mosaico è stato spesso lontano. L’operazione condotta dalla generazione dei ventenni degli anni settanta è stata quella di condurre una sperimentazione sul linguaggio musivo tale da poter rivendicare al mosaico un’autonomia espressiva, poterlo considerare uno strumento al di là della traduzione di un dipinto o di un progetto di design. Questo è stato un modo per guardare altrove, una reazione, rispetto all’attività dei mosaicisti della generazione precedente che si sono trovati, nel bel mezzo dell’operazione di Bovini, a dover fare i conti con grandi nomi dell’arte di metà novecento.

L’operazione può dirsi riuscita? Personalmente direi di sì. Certo è che le più giovani generazioni non si pongono più il problema di affrancare il mosaico, lo utilizzano al pari di altri linguaggi espressivi e in alcuni casi lo utilizzano accanto ad altri linguaggi, lo utilizzano per tradurre e reinterpretare e lo utilizzano per creare ex-novo e tutto senza soluzioni di continuità, senza debiti o gerarchie. Le nuove generazioni hanno spostato lo sguardo di nuovo.

Nell’intervista a Saturno Carnoli si chiede: “Quali sono le caratteristiche che rendono un’opera musiva un’opera d’arte vera e propria?” …credo che nessuno dei giovani accetterebbe di rispondere ad una domanda come questa. Questo non è più un loro problema. Avrebbe senso chiedersi: quali sono le caratteristiche che rendono un’opera pittorica un’opera d’arte vera e propria? E’ possibile rispondere alla domanda: cosa fa di un oggetto un’opera d’arte? Il giudizio dei posteri? Una sinergica aderenza tra aspetto e contenuto per un messaggio a forte impatto comunicativo? Personalmente sono portato a preferire il concetto di cultura visuale rispetto a quello di arte. Un dipinto, un mosaico, un progetto di design, il progetto realizzato, un’architettura, una sedia, un gioiello, la forma del cibo, un video su youtube, le foto di un profilo facebook… non fa differenza, o meglio, ci sono differenze tra i prodotti ma non attribuibili all’appartenenza di genere, piuttosto ad una coerenza interna ai prodotti stessi. Inception di Christopher Nolan è sullo stesso piano di Det Ultimate Selvmord di Lasse Gjertsen. Il problema sta, ora, nel trovare un mercato per i propri prodotti visuali.” Daniele Torcellini

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Bronzino, Ritratto di Eleonora di Toledo col figlio Giovanni Medici, 1545, Galleria degli Uffizi, Firenze

Ses purs ongles très haut dédiant leur onyx…”, Stéphane Mallarmé, Sonnet n. IV

Agnolo di Cosimo di Mariano detto Bronzino (Firenze, 1503 – 1572): da figlio di un macellaio a ritrattista ufficiale della corte di Cosimo I Medici.

Palazzo Strozzi gli ha dedicato una mostra completa a cura di Carlo Falciani e Antonio Natali (in corso fino al 23 gennaio), dagli esordi col Pontormo, il più significativo dei suoi primi maestri (gli altri furono Raffaellino del Garbo e un pittore ignoto), sino agli allievi che ne rileveranno l’eredità, primo fra tutti Alessandro Allori, pur mediandola col mutato clima controriformato degli ultimi decenni del ‘500.

L’esposizione dà dunque conto di ogni fase del Bronzino, inclusa la breve parentesi pesarese presso la raffinata corte di Francesco Maria della Rovere (1531-32), come dei capolavori d’ambito religioso – fra cui la cappella di Eleonora di Toledo, qui ricostruita, e gli arazzi biblici con le Storie di Giuseppe, entrambi a Palazzo Vecchio – oltre agli scambi letterari e intellettuali di versi (Agnolo si dilettava di poesia) e teoria del disegno con i più illustri rappresentanti culturali dell’epoca, dal Vasari al Borghini, dal Varchi alla Battiferri, culminati nella tela dipinta, recto e verso, col nudo del nano di corte Morgante, a dire che la pittura non è seconda alla scultura in quanto a tridimensionalità, anzi la supera nelle possibilità temporali, perché se sulla superficie frontale il nano si accinge alla caccia, sulla tergale l’ha appena conclusa.

Bronzino, Ritratto frontale e tergale del nano Morgante, ante 1553, Galleria degli Uffizi, Firenze

Ma è nella serie di ritratti dei notabili che Bronzino lascia il segno nella storia della pittura, risultando uno degli artisti più inquietanti (più del Bosch infernale, altrettanto inquietante però nelle sue visioni di folli e paradisi) e tecnicamente ineccepibili di sempre, laddove non si intenda la sua precisione infinitesimale per esercizio vacuo (velluti e broccati, pieghe delle stoffe e perle si toccano con gli occhi), ma perfettamente rispondente alle esigenze di una corte e di un’epoca, quella della restaurazione medicea di Cosimo I, al governo dal 1537 al 1574, quando il potere si fece assoluto e la classe dirigente aristocratica e non più mercantile, grazie anche alle riforme accentratrici del granduca che chiuse gli investimenti stranieri e radicò il potere nel possesso terriero di pochi fedeli, di fatto bloccando per secoli ogni ascesa sociale.

I volti eburnei, freddi, la pelle liscia e gli sguardi anni luce distanti da ogni realtà che non fosse la propria, sono quelli di chi altero e inamovibile ha la sicurezza d’essere per sempre al comando, quasi una galleria delle cere di un’età cristallizzata, ferma in pose fisse, impassibili, su sfondi scuri, blu, verdi o comunque irreali, come le architetture sì fiorentine ma già metafisiche alle spalle di Bartolomeo Panciatichi.

Bronzino, Ritratto di Bartolomeo Panciatichi, 1541-45 ca., Galleria degli Uffizi, Firenze

Eppure sotto questi strati glaciali, perfetto specchio sociale in cui Bronzino sembra aver ricomposto le tensioni e gli umori sulfurei, problematici, del primo manierismo di Rosso e Pontormo, si agita serpentina un miscela di iperintellettualità e lascivia, come testimoniato dalle allegorie di Venere e Amore: corpi sinuosi, torniti e atteggiamenti incestuosi, mentre in secondo piano compaiono ombre mostruose (maschere di carne umana, il demone della gelosia dai capelli di serpente, un satiro dalla lingua umettata in prominenza), sino all’allegoria più nota del medesimo tema, oggi alla National Gallery di Londra e purtroppo non presente in mostra, ancor più complessa e, di nuovo, inquietante, un incubo di gran classe, già dono di Cosimo a Francesco I di Francia, a dire del sentire comune del tempo a livelli altissimi della società.

Bronzino, Venere, Amore e satiro, 1553-55, Galleria Colonna, Roma

Nei locali sottostanti Palazzo Strozzi, nel Centro di Cultura Contemporanea Strozzina, è allestita la rassegna fotografica Ritratti del Potere, volti e meccanismi dell’autorità, a cura di Peter Funnell, Walter Guadagnini e Roberta Valtorta e coordinamento di Franziska Nori, in cui si analizza l’incarnazione del potere nel nostro tempo da parte di uomini, donne, istituzioni e autorità pubbliche e private, attraverso gli scatti di diciotto fotografi.

Hiroshi Sugimoto, Fidel Castro, 1999

Rispetto ai ritratti di Tina Barney, Helmut Newton e Annie Leibovitz, caduti nella trappola dell’ufficialità nel riprendere rispettivamente l’aristocrazia inglese, Margaret Thatcher ed Elisabetta II, cosa in parte evitata da Nick Danziger con Blair (ma fino a che punto le sue immagini meno ingessate non sono esattamente quelle volute dal premier e dal suo entourage?), risultano più centrati i lavori di Hiroshi Sugimoto che non fotografa gli originali (Castro e Wojtyla), ma le loro copie di cera (quasi un’operazione bronzinesca rovesciata), o di Daniela Rossell e Martin Parr, con la mise en scène del kitsch, ultralusso leopardato/ultra cafonal griffato, dei nuovi arricchiti messicani e inglesi, coi cappelloni assurdi dei party all’aperto per Parr e per la Rossell coll’attenzione rivolta alle figlie dei potentissimi parvenu messicani, esistenti non in quanto Janita, Paulina o Jeanette, ma come indicato dai titoli in qualità di figlie di, nella casa della madre o nell’ufficio del padre, con tutti gli accessori e sovrabbondanza di animali selvatici impagliati, dominati.

Daniela Rossell, Paulina Fathers Desk

Notevoli anche le strategie controinformative e demolitrici degli Yes Men, in questo caso ai danni della Dow Chemical, il lavoro sui suoni del potere di Fabio Cifariello Ciardi e il video di Francesco Jodice sugli sconvolgimenti paesaggistici operati a Dubai, in forza di una massa abnorme di denaro (prima dello scoppio dell’ennesima bolla), con grattacieli, piste da sci innevate alle spalle del deserto, acquari faraonici e altre opulenze artificiali, costruite anche grazie ad una manodopera di immigrati (indiani, pakistani, nepalesi) sfruttati a costi bassissimi, ai limiti della schiavitù.

Precedono questa sala i lavori di Clegg & Guttmann: alcuni dettagli-sineddoche di potenti (mani e cravatte), un attore che veste panni e pose da potente su uno sfondo dichiaratamente posticcio e, alfine, i ritratti di tre potenti veri, banchieri della Deutsche Bank, ripresi in un interno dalle cui finestre si scorge Francoforte, un paesaggio urbano a ricordo della tradizione ritrattistica antica: hanno volti funerei e distaccati, come si addice al vero centro decisionale odierno: più della politica, il denaro e la finanza, che altro non producono se non se stessi, in una vertigine onanistica totale, globale. Tuttavia, proprio questa foto (frutto dell’assemblaggio di tre ritratti distinti con inserimento successivo dello sfondo) rischia il compiacimento della committenza, talché sarebbe bello immaginare quegli stessi uomini coi medesimi sguardi seri in un montaggio alla Kulešov, in costume da bagno su una spiaggia affollatissima, o con gli stessi abiti d’alta sartoria, ma in fila al supermercato, alla posta o in farmacia, come esseri comuni, mortali.

Clegg & Guttman, The Board, Single-Group Portrait, 2007

Palazzo Strozzi – Bronzino

Strozzina – Ritratti del Potere

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E amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue facoltà e saranno queste parole che io ti comando oggi sul tuo cuore.Deuteronomio 6, 5-6

Dio non ha creato la donna partendo dalla testa dell’uomo perché lui la comandi; né partendo dai suoi piedi perché lei sia sua schiava. L’ha creata partendo dal suo fianco, di modo che sia più vicina al suo cuore.” Dal Talmud

Marc Chagall, Solitudine, 1933, Tel Aviv Museum, Tel Aviv

Alcuni libri desideriamo leggerli, altri vogliono essere letti. È come se ci cercassero.

Nel caso di Yeshayahu Leibowitz (Riga, 1903 – Gerusalemme, 1994), la segnalazione mi è arrivata da un’amica preziosa: a volte capita di trovare autori che ci fanno esclamare: – ma come ho fatto prima, senza te, a capire!- E infatti non è possibile capire davvero alcuni argomenti se non sono spiegati da maestri interni e intrisi di una data cultura d’origine. Lo stesso, ad esempio, si può dire per le traduzioni vediche di Panikkar o del genio di Pavel Florenskij: senza il suo Le porte regali (prefazione di Elémire Zolla, Milano, 1977) il mondo e il senso dell’icona ortodossa resterebbero comunque oscuri, nonostante negli anni si siano aggiunte decine di saggi storicamente validi, non ultimi quelli di Tania Velmans.

Ma solo un ortodosso può arrivare lucidamente a dire che l’icona non è un quadro che rappresenta il sacro, come nella tradizione cattolica-occidentale (non a caso ritenuta idolatra), ma è il sacro stesso, come “una finestra è una finestra in quanto attraverso ad essa si diffonde il dominio della luce, e allora la stessa finestra che ci dà luce è luce…” (P. Florenskij)

Tornando a Leibowitz, in Italia sono ancora rare sue pubblicazioni, principalmente due, a cura dell’editrice Giuntina, specializzata su testi ebraici: la raccolta Lezioni sulle Massime dei Padri e su Maimonide (col piccolo benché ottimo glossario posto in fondo al libro, Firenze, 1999), ciclo di conversazioni radiofoniche su argomenti vari, dai detti dei Padri, rabbini del II sec. a.C. – I sec. d.C., ai possibili significati della Torà, dal Talmud alla Mishnà, dall’importanza della preghiera rituale a Maimonide, latinizzazione di Moshé ben Maimon (Cordova, 1135 – Il Cairo, 1204), filosofo e sapiente ebreo, nonché stella polare della vita e degli studi di Leibowitz, che, sia detto per inciso, non si occupò solo di teologia, ma parallelamente di chimica e filosofia della scienza, oltre ad essere stato un sionista sostenitore del dialogo con i musulmani.

Yeshayahu Leibowitz (Riga, 1903 - Gerusalemme, 1994)

L’altro suo testo, più breve, ma a mio giudizio ancor più importante delle Lezioni, è l’illuminante La fede ebraica (Firenze, 2001), in cui l’autore affronta magistralmente e spiega con semplicità la natura della vera fede, ovvero quella fine a sé, grazie alla quale si crede perché si ha appunto fede e l’uomo è al servizio di Dio senza chiedergli aiuto o dubitare della sua mano, volontà o Parola. Al riguardo Leibowitz cita tre casi biblici emblematici: Abramo, Giobbe e Qohelet (su quest’ultimo, essendo uno dei libri più importanti della storia dell’umanità, si tornerà con un post specifico), il primo in rapporto diretto con Yahweh, il secondo “fronteggia i suoi compagni in una grande discussione”, mentre il terzo è a “colloquio con se stesso, ma in fin dei conti arrivano tutti alla stessa fede «fine a se stessa»”, come anzitutto testimonia Abramo, forse il punto più alto dell’affidarsi cieco a Dio (e anche il più difficile da seguire per gli uomini): “la protagonista della vicenda del sacrificio di Isacco non è però la giustizia, ma la fede, ed essa si trova al di là delle categorie umane. Sulla fede, così come essa traspare nella vicenda del sacrificio, l’uomo non può discutere con Dio: o crede o non crede. Abramo credette e tacque.” (Yeshayahu Leibowitz)

Mi viene in mente una frase che lessi molti anni fa nel quartiere braidense di Milano, sorta di parafrasi cattolica di un pensiero di Franz Werfel: “per chi ha fede nessun miracolo è necessario, per chi non ha fede nessun miracolo è sufficiente.

Concludo con una storia chassidica (e non si può non segnalare il bel Meridiano dedicato a Martin Buber, Storie e leggende chassidiche, Milano, 2008), tradizione altra, differente da Leibowitz, ma se non ricordo male, una delle visioni del paradiso ebraico è Dio seduto attorno ad un tavolo coi maestri e i profeti di ogni tempo, intento ad una discussione infinita intorno al senso della Legge, che così resta eternamente viva, nella ricchezza e nella diversità di un dibattito cui Dio stesso non vuole porre la parola fine.

Quando il maestro spirituale Israel Ba’al Shem Tov, fondatore dello chassidismo, aveva un difficile compito davanti a sé, si recava in un certo luogo nei boschi, accendeva un fuoco e meditava in preghiera. E ciò che aveva deciso di fare realizzava.

Una generazione dopo, quando il suo discepolo dovette assolvere lo stesso compito, si recò nello stesso luogo nei boschi e disse: “Non sappiamo più accendere il fuoco, ma conosciamo ancora le preghiere.” E ciò che aveva deciso di fare si realizzò.

Un’altra generazione dopo, quando anche il discepolo del discepolo dovette assolvere lo stesso compito, si recò nello stesso luogo nei boschi e disse: “Non sappiamo più accendere il fuoco, non conosciamo più le preghiere, ma conosciamo ancora il luogo nei boschi dove è successo. Dev’essere sufficiente.” E fu sufficiente.

Ma un’altra generazione dopo, quando il discepolo del discepolo del discepolo si sedette nella sua poltrona dorata, nel suo castello, disse: “Non sappiamo più accendere il fuoco. Non conosciamo più le preghiere. Non conosciamo più il luogo nei boschi dove tutto ciò è successo. Ma possiamo ancora raccontare la storia.” (da Racconti dei saggi yiddish, Milano, 2010)

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