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Archive for marzo 2024

Di seguito presento il testo critico in catalogo per la doppia personale di Giuliano Babini e Maurizio Pilò da me curata insieme all’amico Roberto Pagnani presso il Centro Culturale Mercato di Argenta.

Vi aspettiamo all’inaugurazione domani, sabato 16 marzo alle 17.30, per festeggiare insieme agli artisti. Non mancate!

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Muta Natura

di Luca Maggio

“Solo questo esiste: aggregazione e disaggregazione di ciò che fu aggregato.” Empedocle

È tutto nel titolo. Si presentano qui le opere di due artisti diversi, Giuliano Babini e Maurizio Pilò, che interrogano le cose della natura giungendo da poli opposti a far toccare gli archi del loro fare in un cerchio vitale di continuità. Del resto, nel greco antico la medesima parola racchiude un duplice significato, secondo di dove si sposti l’accento: bíos è la vita, biós è l’arco.

Tendendo la corda del pensiero per trapassare “gli margini del mondo”, direbbe Giordano Bruno ne la Cena de le ceneri, i due nostri artefici hanno dato corpo a quadri, sculture musive e installazioni ideate appositamente per lo spazio Centro Culturale Mercato di Argenta, lasciando a noi l’ambiguità di interpretare in lingua italiana o latina questo titolo: Muta Natura.

Si parla dunque di natura. Lo si fa con oggetti d’arte muti, silenziosi per definizione, ma non inerti. Non era forse De Chirico a definire le sue nature morte come vite silenti?

Si parla dunque di natura. Lo si fa con oggetti d’arte che sono in mutazione continua, hanno cambiato la pelle di ciò che in essi viene (rap)presentato e, seguendo un percorso tracciato dagli stessi Babini e Pilò con un elemento installativo da loro realizzato – in cui sono citate le canne palustri tipiche della zona argentana – e disposto fra i due principali ambienti espositivi, si va dai lavori scultoreo-musivi tridimensionali di Babini, posti a terra, alle grandi tele bidimensionali e inedite di Pilò a parete, sebbene per Babini sia previsto anche un tondo pittorico da appendere e per Pilò alcune tecniche miste precedenti da collocare sul pavimento, in un dialogo speculare di reciproca appropriazione dei locali a disposizione.

Giuliano Babini

Maurizio Pilò

Guardando questi manufatti in sé e nel loro vicendevole compensarsi, viene alla mente Lucrezio: “nec manet ulla sui similis res: omnia migrant,/ omnia commutat natura et vertere cogit” – “nulla resta uguale a sé stesso: tutto cambia,/ la natura tutto trasforma e costringe a mutare” (De Rerum Natura, 5, 830-831). Come se tutto ciò che è presente in queste sale provenisse da una medesima fonte invisibile e, materializzandosi nelle proprie varietà formali, avesse raggiunto l’isonomia lucreziana, ovvero l’equilibrio dei contrari che pone alla nostra attenzione le orizzontalità e verticalità così differenti di queste opere, ma originatesi dal libero incontro-scontro-deviazione della caduta o inclinazione o clinamen corpuscolare che tutto genera nella fisica epicurea: il filo d’erba e il pianeta che lo contiene, infiniti altri mondi e le cellule del nostro occhio o quelle delle antenne della formica, ogni materia, ogni energia, la luce, persino i segni di inchiostro, le tessere-lettere che compongono la parola da voi appena letta.

Nel minimo è il massimo e viceversa, Mandelbrot docet, o volendo affacciarsi alla saggezza orientale di Thich Nhat Hanh ne Il cuore della comprensione: “Nel foglio di carta è presente ogni cosa: il tempo, lo spazio, la terra, la pioggia, i minerali del terreno, la luce del sole, la nuvola, il fiume, il calore. Ogni cosa co-esiste in questo foglio. ‘Essere’ è in realtà inter-essere (…). Non potete essere solo in virtù di voi stessi, dovete inter-essere con ogni altra cosa. Questa pagina è, perché tutte le altre cose sono.” La metamorfosi è costante.

Le creature babiniane, da inserirsi nel flusso artistico post-human, sebbene siano anzitutto una galleria animale, giungono a noi come cose altre, geneticamente modificate e tuttora in mutamento, o forse lo siamo noi con la nostra artificialità rispetto a loro: hanno attraversato altre notti, altri sogni, paralleli mondi per raccontarci di Goya e di Bosch, di miti classici antichissimi divenuti contemporanei e tuttavia conservano in ogni parte loro la natura, una natura cui non siamo abituati per pigrizia di immaginazione, il locus da cui provengono. È pelle la loro, è corpo, sono denti ossa corna incistate, è mosaico, è pelle che si volge in mosaico o il contrario, come avviene nei rettili. D’altronde l’ibridazione è nel loro DNA. Hanno letto Ovidio, pregano come Dafne, risalgono da abissi primordiali, costituiscono una memoria nuova e preludono a futuri di nature mutate fra bucrani blu e teschi verde-azteco. E in mezzo a tante mirabilia post-zoologiche appare l’autoritratto dell’artista, pietrificato, su cui si innesta la conchiglia-orecchio, evocante le onde del mare nero-ardesia verso cui è volto il suo sguardo commosso, lontano.

Altre acque permeano i frammenti dipinti di vita nuova di Pilò. La partenza è fotografica: sono accumuli di immagini, “strati di giorni” li definisce l’artista, che si depositano anzitutto nella sua memoria, sui quali il tempo della riflessione silenziosamente agisce. Il primo scatto non raffigura nulla di eclatante, anzi, spesso sono particolari ravvicinati di luoghi soggetti a degrado, inariditi, inquinati. Ecco l’abbandono. Su questa base incollata su supporto di tela o cartone, egli opera la trasformazione con acrilici, pastelli a olio, collage cartacei, scritte, foglie d’oro, cera d’api e quant’altro serva per nascondere il dato iniziale e rivitalizzarlo in acque blu e verdi quasi fluo, in piante e erbe rigogliose, in un ritorno sontuoso alla vita selvatica. Ecco la rinascenza. La sfida che la pietas di Maurizio compie come necessità verso la grande Madre cui tutto dobbiamo. E le acque di cui sono intrisi i suoi lavori, rammentano quelle dantesche del Lete e dell’Eunoè, i due fiumi del Paradiso terrestre provenienti dalla medesima fonte divina e poi divisi, nei quali l’anima si deve immergere per accedere al Paradiso celeste: il primo è l’oblio, serve a dimenticare, a lavarsi dal male compiuto. Il secondo è “la memoria del bene”, la purificazione avvenuta. Il cammino nuovo può attuarsi, come queste opere compiutamente dimostrano.

Maurizio Pilò

Giuliano Babini

Di recente ho appreso la definizione sintetica quanto icastica che il fotografo Enrico Cattaneo dava delle opere d’arte: un oggetto + un’idea. Credo che questa occasione argentana ne sia testimonianza efficace, rivelando l’inedito, ciò che Muta Natura possa e voglia significare.

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Pubblico di seguito il testo critico per la personale di Federico Guerri Segni e matrici che ho avuto il piacere di curare presso la galleria Pallavicini22 di Ravenna dove resterà aperta dal 9 al 24 marzo 2024. Si inaugura domani alle 18.30, vi aspettiamo!

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Federico Guerri, Il vento si prepara, 2017, grafite, acquarello e pastello su tela, cm190x170

Federico Guerri. Segni e matrici

di Luca Maggio

“L’assenza comprime le cose, le penetra nella sua unità segreta.” Stéphane Mallarmé

Una pioggia babelica. Questa l’immagine residua nella mia mente dopo aver visitato lo studio di Federico Guerri. E, tra fitta goccia e fitta goccia, fra graffio-segno e graffio-segno, l’assenza fatta di colore. Nero e bianco o, nei tempi ultimi, in tinture differenti sulle superfici sue. Assenza che tale non è, sostanziando di sé il piccolo segmento o bastoncino o micro-rettangolo – cifra sua peculiare – che tenta di precisarla e, a sua volta, ricevendo perimetro ovvero forma e direzione dal segno stesso. Si completano a vicenda dando vita e estensione a ciò che dinanzi appare: porzioni di mondo metamorfiche e rizomatiche, quasi autogenesi potenzialmente infinite, architetture d’interni o esterne, figurazioni di appartamenti e singole stanze o visioni urbane o, anche, selvatiche, rovine romantiche e futuribili, di un futuro già “dimenticato a memoria”. Qui, nemmeno l’ombra dell’essere umano che, pure, deve aver realizzato abitato usato strutture così concepite.

Federico Guerri, Città sconosciuta, 2015 grafite acquarello e pastello su tela cm130x170

Federico Guerri, Sommerso, 2017, grafite, grafite, pastello e acquarello su tela, cm190x170

Cosa è la memoria? Di cosa è fatta la traccia che comunemente chiamiamo ricordo? Un engramma, qualcosa di abbastanza stabile che si basa su un accaduto o una costruzione ex novo o variazione a partire da ciò che crediamo ci sia stato? Forse, e più spesso di quanto si creda, la somma delle due possibilità.

Il demiurgo Guerri parte dal caos, dalla macchia informale su tela grezza non lavata e idrorepellente. Qualcosa aderisce, si attacca, dichiara il suo desiderio di essere. Inizia così, oculata, una definizione con pastello a cera bianca che conseguentemente vedrà apparire i segni-mattoncini-tessere-cellule che sono anche matrice di questi universi epidermici e assieme stratificati in complessi spazio-temporali doppiamente sovrapposti: c’è oggetto sopra altro oggetto, ci sono intersezioni sopra intersezioni, prospettive multidirezionali, ribaltamenti, sedie, mura, edifici, ponti, strade, vegetazioni rampicanti e porte, finestre, mobili che si interrompono, cambiano, altro divengono. E le memorie ci sono, unitamente a suggestioni volute o accidentali di mappe topografiche, vedute a volo d’uccello che corrono da Jacopo de’ Barbari a Hiroshige e viceversa (gli ordinamenti cronologici nella mente creativa perdono ogni senso), i geoglifici Nazca e le scenografie ottiche in assenza di esseri umani di Gabriele Basilico, c’è Piranesi e la malinconia pre e post romantica di questi fantasmi futuri di vestigia immaginate, ci sono le radiografie o meglio le rayografie di sistemi linfatici e sanguigni e neuronali di città e manufatti e la memoria, infine, del libro primordiale, delle incisioni rupestri sul nero dell’ardesia (roccia-metafora del costruire e dell’apprendere umani), “disegni fossili”, li chiama lo stesso Guerri, assetati di luce.

Federico Guerri, Pagine per appunti notturni, 2019, ardesie incise e oliate, cm50x70x32

Filo rosso di ciascun manufatto resta lo sfondo che opacizza e confonde una chiarezza di linee alfine annunciata ma non condotta alle conseguenze estreme. Un equilibrio risulta ma precario fra la chiazza sottostante e l’intrico all’apparenza ordinato su essa anteposto, ergo un bilanciamento fra il conatus spinoziano ovvero il desiderio insopprimibile e essenziale di ogni cosa a “perseverare nel proprio essere” e la resistenza a questo stesso desiderio che “è, almeno nell’arte, l’elemento decisivo – la sua grazia.” (G. Agamben, Creazione e anarchia, Vicenza 2021, p. 52)

Per certo, contano nel nostro artista anche le origini tipografiche e famigliari e la formazione in anni accademici sulla scultura, dove ogni grammo di materia pesa fra le mani dell’artefice.

Federico Guerri, Paesaggio, 2023, grafite e acquarello su tela cm 120×110

Federico Guerri, Paesaggio, 2023, grafite e acquarello su tela cm 120×110

Col tempo, nel corpo del suo fare, inscindibile è divenuto il colore, il nero anzitutto, dalla macchina decorativa e costitutiva soprastante, addensamento di ricordanze dissimili quanto consonanti, congiunte simultaneamente in iconografie costituite da pieni-vuoti attraverso la moltiplicazione del segmento-mattoncino oblungo a formare progetti edificatori imponenti, sebbene cavi come ossa di uccelli traversate dall’aria, pronte a spiccare in nuove mutazioni senza soluzione di continuità, fluide, come riportano (in C. Nooteboom, Verso Santiago. Digressioni sulle strade di Spagna, Milano 2023, p. 365) i versi dell’arabo andaluso Ibn Zamrak (1333 – 1393) sul bordo della vasca della fontana nel Patio dei Leoni all’Alhambra, scrittura-tessitura che emerge e si confonde al contempo con l’acqua che la lambisce: “Il solido e il liquido sono così vicini/ che non si sa quale dei due scorra,/no, non è acqua, quella che scorre verso i leoni/ è una nuvola di movimento fluido…”. Come Guerri fa accadere nelle sue geografie ipotetiche.

Federico Guerri, Camera, 2014, grafite, pastello e acquerello su tela, cm 170×150

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