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Archive for ottobre 2021

Dario Picariello, L’acqua le bagna come il vento le calpesta, 2021, stampa fotografica su carta hahnemühle 200g, 30 x 50 cm cad. Polittico composto da dieci pezzi

LABS Contemporary Art ha presentato lo scorso 11 settembre L’acqua le bagna come il vento le calpesta, personale dell’artista Dario Picariello. In mostra, fino al 13 novembre, verranno presentate tre grandi installazioni inedite della serie Cicli, produzione avviata nel 2020 che prende spunto dalle tradizioni dei canti popolari meridionali. Il percorso della mostra è accompagnato da un testo critico di Eugenio Viola, capo-curatore del Museo de Arte Moderno de Bogotá – MAMBO, Colombia e prossimo curatore del Padiglione Italiano alla Biennale d’Arte del 2022.

Dario Picariello, Cinquantaquattro, stampa fotografica a contatto su seta, carta blueback, ombrello da studio fotografico in seta, Ø200 x 75 cm ca
Dario Picariello, Non mi mandà più baci pe la strada, 2021, stampa fotografica a contatto su organza, ventilatori, stativi fotografici, carta blueback, 460x100x50 cm ca

Gli interventi installativi, realizzati con diversi materiali e tecniche, sono messi in mostra grazie all’impiego di attrezzatura del backstage fotografico, come ombrelli o stativi. L’attenzione è rivolta al medium fotografico, ponte di unione tra il passato e presente: le immagini fotografiche vengono modificate digitalmente, trasferite con acidi su tessuti oppure stampate su carta blueback fatta a striscioline, per essere poi utilizzata per ricamare parole, secondo pattern decorativi di abiti cerimoniali o immagini naturali. I canti selezionati per questa occasione hanno origini e periodi differenti; a intrecciarli il tema comune della violenza, sia essa fisica, verbale o psicologica. 

Press Irene Guzman

Dario Picariello, L’acqua le bagna come il vento le calpesta, LABS Contemporary Art_Bologna 2021

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Riccardo Guarneri, 2020, ph Gerardo Gazia

Pubblico il testo apparso in francese e inglese sull’ultimo Mosaïque Magazine (n.21, Montpellier – Aprile 2021) e in italiano su Graphie (n.96, Il Vicolo, Cesena – Settembre 2021) con la mia intervista al maestro Riccardo Guarneri. Ringrazio Renée Malaval e Mariza Zattini, due donne che, a vario titolo e con coraggio, credono veramente nell’Arte.

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Arioso con grande celeste, 2008, cm 140×180

Riccardo Guarneri, la luce il segno il colore

di Luca Maggio

Lo scorso 27 luglio (2020) ho avuto il piacere autentico di conoscere Riccardo Guarneri (Firenze, 1933) nel suo studio fiorentino. Confesso la mia emozione per questo incontro che mi ha rivelato non solo uno dei grandi maestri dell’astrattismo pittorico da sempre da me amato e riconosciuto a livello internazionale (non ultimo, l’invito da parte di Christine Macel a esporre alla 57ª Biennale di Venezia insieme a Giorgio Griffa), ma soprattutto un uomo colmo di poesia.

Sto dicendo che è accaduta una cosa rara e decisamente non scontata: la coincidenza delle sue delicatezze umane con quelle artistiche. Il sapore di verità che tutto assumeva mano a mano che lo sentivo parlare e mi mostrava i suoi lavori da quelli più storici degli anni ’60 e ’70 sino alle tele e alle carte degli ultimi fertilissimi vent’anni. Segnalo che quattro di queste opere sono state recentemente (2021) acquisite dal Centre Georges Pompidou di Parigi per la collezione permanente.

Sono profondamente grato al maestro Guarneri, all’uomo Riccardo per ogni sfumatura di cui ha voluto rendermi partecipe.

Due due due, 1972, cm 123×123

Ha sempre voluto dipingere? Come ha iniziato e che clima si respirava nella Firenze degli anni ’50?

All’inizio volevo fare il musicista, poi la pittura ha scelto me. Ho iniziato casualmente, ma la casualità degli esordi è diventata passione concreta e un modo per approfondire me stesso attraverso la pittura.

Il clima artistico nella Firenze di settant’anni fa era quello legato a Rosai e ai “rosaiani”, ma io decisi di abbracciare insieme a un gruppo di amici coetanei l’esperienza informale che nel frattempo dilagava in Europa e nel mondo intero.

Giallo sferico, 1969, cm 70×65

Nel catalogo milanese del 1973 “Un artista dipinge per avere qualcosa da guardare” lei poneva una questione fondamentale: “Che c’è di nuovo nel passaggio dal quadro-oggetto all’oggetto nel quadro?” e affermava che la geometria va intesa “come un modo nuovo di considerare lo spazio” il quale a sua volta “deve andare oltre i confini della rappresentazione” cosicché la tela diventi “un pretesto, una partenza, un’ipotesi concettuale”.

È sempre della medesima idea cinquant’anni dopo e che differenza c’è fra la sua posizione e quella degli astrattismi che l’hanno preceduta?

Sì, resto della stessa idea, anzi non ricordavo di averla espressa con tanta nettezza.

Per quanto riguarda la differenza fra i diversi astrattismi direi che è sostanziale: la fede degli astrattisti precedenti, ad esempio della prima metà del ‘900, si orientava verso una rappresentazione che non poneva dubbi all’eventuale fruitore, in quanto un quadrato era veramente un quadrato. Nel caso mio, venendo da un clima più esistenzialista, la mia attenzione era decisamente rivolta verso il dubbio più che alla certezza.

Ed ecco nella mia pittura che un quadrato non è mai un vero quadrato e un colore è spesso indefinibile nel suo apparire.

Molto ritmato, 2016, cm 140×180

A proposito, maestro, lei parte da un bozzetto preparatorio o tutto nasce al momento, benché colmo di meditazione ed esperienza?

Mi considero un “bachiano”, nel senso del grande compositore. Tutto nasce nella variazione e la variazione non nasce dalla fantasia ma dal metodo.

Otto rettangoli e un quadrato, 1971, cm 95×95

Cosa desidera dalla carta e cosa dalla tela?

La carta dà risultati inerenti al materiale stesso, se, ad esempio, è più fine, più grossa, o liscia, opaca, ecc. E questo, in alcuni casi, può sorprendere l’autore stesso.

La tela invece, anche per le sue dimensioni spesso più grandi, dà delle certezze che tuttavia non sempre si rivelano raggiungibili.

Ritmi bianchi complessi, 2012, cm 95×120

Le sue epifanie, le sue apparizioni, che talvolta mi ricordano le prime luci dell’alba, presentano geometrie (quadrati, linee rette, più raramente curve) che sfumano liricamente, non sono mai nette, anzi sembrano rompere i propri confini sebbene con grazia estrema, mai violentemente. La sua è una unione sapiente di luce-colore-segno in una texture dinamica e ogni volta diversa, fatta di equilibri sottili (significativo da sempre il suo uso della matita), fragili eppure esatti, calibratissimi, che obbligano quasi l’occhio a sostare sempre di più per entrare nel loro mistero. Le sue opere trattengono lo sguardo, millimetro dopo millimetro, come reti che pazientemente catturano. La domanda sarebbe proprio sul rapporto fra luce-colore-segno…

Direi che tutto ciò che lei ha osservato va benissimo. Non aggiungo nulla, anzi lo apprezzo molto.

Mosaico stazione Lucio Sestio, Roma, 2000, cm 200×1200, ph Beatrice Guarneri

La ringrazio. Fra l’altro, la sua riflessione continua sulla luce che anima il segno-colore mi ricorda il lavoro di un grande mosaicista ravennate, Marco De Luca. A questo proposito, ha mai avuto rapporti con il mosaico contemporaneo?

La vita è quello che ti capita. E a me capitò la proposta da parte di Piero Dorazio di realizzare un mosaico per la metropolitana di Roma, in particolare per la fermata Lucio Sestio. Nel 2000 il progetto fu portato a compimento e interpretato con lodevolissima maestria proprio da mosaicisti di Ravenna.

Fui davvero molto stupito del risultato quando per la prima volta scesi alla stazione Lucio Sestio e vidi quel mare di tessere inondato dalla luce del sole che veniva dall’alto e si riverberava su tutta la parete.

Mosaico stazione Lucio Sestio, Roma, 2000, particolare, ph Beatrice Guarneri

Proprio riflettendo su questo grande mosaico romano (cm 200×1200), nel suo catalogo “Contrappuntoluce” (2004) Maria Grazia Messina parla di “partitura: per chi ne ha familiarità, l’occhio assimila la parete a un’ingigantita scrittura musicale.”

L’ultima domanda è appunto sul suo rapporto con la musica. Sa, di fronte a certe cose sue mi sembra di sentire l’Adagietto della V Sinfonia di Mahler, con l’arpa e quei cenni di note sebbene così intense nel loro avanzare orchestrale…

Da giovane ho iniziato col jazz, poi ho studiato la classica, in particolare chitarra classica e contrabbasso. Ma i miei studi musicali venivano puntualmente distratti dal quadro sul cavalletto, nonostante le prime cose dipinte fossero necessariamente da principiante.

Comunque quella era la mia strada e in seguito, com’è noto, mi sono appassionato sempre più alla pittura.

La musica però entra dentro l’anima. E se la si sceglie, quell’interesse inevitabilmente si riversa anche nella pittura o in altre forme d’arte. E tuttora, quasi sempre quando lavoro ascolto musica, classica o jazz. Musica.

Riccardo Guarneri e Luca Maggio, nello studio fiorentino del maestro, 27 luglio 2020

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Marisa Zattini. Alberi. The Aleph Beth of Nature

di Luca Maggio

“Gli alberi sapevano.” James Salter, All That Is

È attraverso la parola, il suono della voce che si propaga nell’ancòra indistinto tutto, che il Dio delle origini o Genesi o Bereshit separa in prima istanza la luce dalle tenebre e di seguito fa accadere il mondo con ogni suo elemento sino all’uomo primo, Adamo.

Alla presenza di costui, etimologicamente connesso al suolo, la terra da cui è stato plasmato – sebbene “i qabbalisti ci ricordano che nella Bibbia” solo “quando la vita venne insufflata nel corpo umano, Adamo divenne nefesh chayà, persona vivente”[1] – Dio conduce ogni sorta di animale selvatico o domestico “per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.”[2]

Dunque Elohìm, il Signore universale, dopo aver sperimentato l’energia generativa della sua parola, dà proprio all’uomo, non a caso fatto “a sua immagine”[3], non già il medesimo potere, ma un altro comunque importante e in analogia: nominare. In questo modo fa capire all’Adamo del giardino paradisiaco[4] di avere una voce e gliene fa conoscere la funzione primaria e benefica, restando sinceramente curioso di sapere quali sarebbero state le sillabe con cui anche Lui d’ora in poi avrebbe dovuto chiamare le sue stesse creature.

Le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico capaci nella bocca del Dio biblico di vivificare ogni principio e attraverso le corde vocali del primo uomo di significare ogni vivente,[5] dunque astrazioni poetiche del sogno divino preesistenti al mondo e atte a produrre realtà – formano poiché esse stesse sono e hanno e danno forma –, sono l’opera che Marisa Zattini pone dinanzi a sé stessa e a noi, in quanto uomini, simili legati al mito adamitico dalla nostra stessa voce che è parola, fiato di vita, riflesso del soffio divino che animò la poca polvere degli inizi e perdura.

Ognuno di questi simboli contiene fiumi di senso: se Aleph è l’uno, l’unione degli opposti, la linea che congiunge i misteri delle “acque superiori e inferiori”, Beth è il due, “l’origine della pluralità” e della ricerca della sapienza, prima lettera biblica, oltreché “casa” e modalità differente per conoscere Dio (aperta/rivelata, chiusa/esoterica).

Marisa Zattini. Alberi. The Aleph Beth of Nature, Oratorio di San Sebastiano, Forlì

Si potrebbe continuare in questa esplorazione sino a Tav, il “sigillo” finale, ma ciò che importa qui notare è che ciascuna lettera è stata impressa a fuoco, spesso manifestazione del divino veterotestamentario, lasciando alchemicamente un segno nero nell’anima chiara e più segreta del legno, al centro dendrocronologico, dunque del tempo stesso, di sezioni di un albero centenario purtroppo abbattuto dalla furia naturale nel 2014 e riportato qui a essere presente e itinerante, cerchio dopo cerchio, suono per suono, dalla mente dell’artista che, laddove passava la linfa e la luce del sole nell’oscurità delle cellule diveniva forza, crescita, corpo e corteccia – viene in mente Dante: “Luce divina sopra me s’appunta,/ penetrando per questa in ch’io m’inventro”[6] – ha tracciato linee umane di multi-significazione, ricongiungendo l’interiore e il superiore: “in verità l’albero è radicato nel cielo. Solo ciò che proviene dal cielo è in grado di imprimere realmente un marchio sulla terra.”[7]

Ogni disco in sé diverso, in cui le lettere sono penetrate come lacrime della luce di Dio nel cuore vivo della sequenza lignea, vede incorniciato il proprio perimetro dal metallo, terzo elemento simbolico e contenitivo di questa teoria alchemico-qabbalistica, e presenta almeno una fenditura naturale su ciascun frammento, quasi una saetta, interpretabile quale eco o refolo dell’alito divino primordiale che attraversa, tocca o lambisce i confini dei segni potenti e centrali qui permutati e permutanti. Scrive la stessa Zattini: “Rompere la forma classica-tradizionale significa creare una fessura mentale nella quale irrompe un nuovo livello di significato.”

A questo proposito cito il notissimo incipit del Vangelo giovanneo: “In principio era il Verbo.”[8] Simone Weil con acume contestava tale traduzione: “Il fatto stesso di aver tradotto «Logos» con «verbum» indica che qualcosa si è perso, perché λóγος vuol dire innanzitutto rapporto, ed è sinonimo di άριθμóς, numero, in Platone e nei Piragorici. – Rapporto, cioè proporzione. – Proporzione, cioè armonia. – Armonia, cioè mediazione. – Io tradurrei: “In principio era la Mediazione.”[9]

Questa opera-installazione della Zattini, sorella dei suoi Alberi eretici/ermetici – credo di aver capito meta-fisicamente le Correspondances baudelairiane solo dopo essere entrato in questo suo bosco alchemico – è un ulteriore e alto tentativo di mediazione qabbalistica fra più mondi e linguaggi e materie per fare emergere connessioni stratificate, altrimenti ipogee, pitagoriche finanche: “Pizzicando le corde della lira, si evoca un rapporto di altezze nello spazio; come la musica è architettura liquida, scultura e pittura sono musica cristallizzata, e le loro puntuali rispondenze nella psiche testimoniano del rispecchiamento.”[10] È senza dubbio una immaginazione fluida-fiorente quella di questa artista, capace nel suo ascoltare e ascoltarsi di aprire varchi e porre ponti metaforici e concreti a un tempo, dunque poetici, fra sponde diversamente non comunicanti. Ancora Zolla: “La poesia è l’unico discorso che comporti l’esperienza di quest’estasi ed offre in se stessa l’esempio di un silenzio che zampilla in parole, perciò è il giusto tramite per dire che la realtà nasce ad ogni estasi che illumini la mente, conferendo significato e ordine a una psiche che nell’estasi fa tutt’uno con il cosmo. La poesia è ciò che la cosmogonia descrive: il silenzio che parla, il vuoto che genera il cosmo.”[11]

Marisa Zattini. Alberi. The Aleph Beth of Nature, Oratorio di San Sebastiano, Forlì

Sintesi finale di questo percorso numinoso – o sua premessa – è il ventritreesimo tondo, in cui i protagonisti sono l’Ouroboros e il numero 137. Questa cifra, per altro 33° numero primo, posta vicino al termine della coda ingoiata dal serpente magico – leitmotiv del pensiero zattiniano, simbolo antichissimo di circolarità eterna, perfezione, rinascita continua e autogenerata – indica la traduzione numerica della parola Kabbalah che, come afferma l’artista stessa, “è il sapere esoterico della Torà, la Bibbia ebraica. Rappresenta un sistema metafisico, una sapienza esoterica che parla il linguaggio universale. È l’arte dei parallelismi.” Non solo: nella fisica è anche detto “costante di struttura fine”, dunque è il trait d’union fra relatività (velocità della luce), elettromagnetismo e teoria quantistica. “Quindi”, conclude la Zattini, “questo numero governa il legame che c’è tra materia e luce.”

A proposito di parallelismi, come onde concentriche su una superficie acquatica, non posso non notare il gioco di specchi in espansione – e lo specchio, dice Borges, “promette l’infinito” – fra la circolarità dell’Ouroboros, quella del disco ligneo che lo contiene e l’architettura rotante dell’Oratorio forlivese di San Sebastiano dove questa mostra è attualmente esposta. Salgono alla memoria gli echi profondissimi dei silenzi e delle dilatazioni ipnotico-melodiche di Giya Kancheli, “facendole assomigliare alle nuvole che vanno e vengono nello loro misteriose traiettorie.”[12]

Bagnate dalla luce di questo spazio rinascimentale, ognuna di queste ventitré circonferenze naturali, su cui il fuoco ha lasciato traccia sonora e indelebile del flusso vitale-universale, “s’india”[13], si immerge e fa immergere nel divino, rivelandosi tramite per ricongiungere o condurre comunque verso quell’Oltre che permea il Tutto.


[1] Haim Baharier, Qabbalessico, Giuntina, Firenze 2012, p. 26.

[2] Genesi, 2, 19, La Bibbia di Gerusalemme, EDB, 2009.

[3] Genesi, 1, 27, op. cit.

[4] Parádeisos originariamente è la trascrizione greca dell’avestico pairidaeza che per Senofonte indicava il grande giardino recintato del re nella Ciropedia. Venne in seguito scelto per tradurre l’ebraico gan della Genesi biblica al posto del vocabolo più comune kpos, proprio per la sua valenza regale “che meglio si adattava a un giardino piantato da Dio.”, cfr. Giorgio Agamben, Il Regno e il Giardino, Neri Pozza, Vicenza 2019, p. 13.

[5] Scrive Marius Schneider in La musica primitiva (Adelphi, Milano 1998, p. 47): “La voce è l’uomo” e aggiunge in Pietre che cantano (Se, Milano 2005, p. 16): “Gli dei sono puri suoni”. Segnalo questi testi poiché andrebbero letti nella loro preziosa integrità.

[6] Dante Alighieri, Paradiso XXI, 83-84, Mondadori, Milano 2006, p. 587.

[7] Simone Weil, La persona e il sacro, Adelphi, Milano 2012, p. 36.

[8] Vangelo secondo Giovanni, 1,1, op. cit.

[9] Simone Weil, Lettera a un religioso, Adelphi, Milano 2008, p. 70.

[10] Elémire Zolla, Archetipi, Venezia 2005, p. 53.

[11] Elémire Zolla, op. cit., p. 119.

[12] Mario Brunello, Silenzio, il Mulino, Bologna 2014, p. 69.

[13] Dante Alighieri, Paradiso IV, 28, op. cit.

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RBP, Vaso, Famiglia Terre, Bottega Fabiani Fratte Rosa (PU), edizione limitata 1960-70, editore distributore Il Sestante MIlano, ph Antonia Mulas

Venerdì 3 settembre nei rinnovati antichi spazi dell’ISIA di Faenza è stata inaugurata la mostra Rosanna Bianchi Piccoli. Ricerca etno-socio-antropologica 1957–1963, curata da Anty Pansera, promossa dall’Associazione DcomeDesign e organizzata con ISIA Faenza e con il patrocinio di Comune di Faenza e Amici della Ceramica e del MIC di Faenza

RBP, 1960, Famiglia Terre, Vasi, ph Marirosa Toscani Ballo

L’evento espositivo, aperto sino al 10 ottobre, è un omaggio alla ceramista Rosanna Bianchi Piccoli (Milano, 1929) che, dalla fine degli anni Cinquanta, si è dedicata al design ceramico con passione e spirito innovativo. Tra il 1957 e il 1963, inizia per l’E.N.A.P.I (l’Ente Nazionale Artigianato e Piccole Industrie) un progetto pilota dal taglio etno/socio/antropologico sulla grammatica ceramica del passato che la porta da Milano alle Marche, dall’Abbruzzo alla Sicilia, e le permette di incontrare i “mastri artigiani”, come il milanese Romeo Daccò, Zizi Tritapepe di Lanciano, Litterio Iachetta di Collesano nelle Madonie, i Fabiani di Fratte Rosa, cocciai dal 1730. 

RBP, 1960, Famiglia Terre, Il Sestante MI distributori produttori, ph di Marirosa Toscani Ballo

L’esposizione all’ISIA di Faenza è composta da 33 pezzi risultato di questa esperienza, alcuni dei quali prodotti appositamente in occasione della mostra a partire dal progetto originale: oggetti d’uso comune senza tempo, insieme antichi e moderni, contraddistinti da un’intensa ricchezza formale, che la ceramista aveva appreso nelle antiche botteghe dei maestri e che aveva imparato felicemente a reinterpretare.

Irene Guzman press

RBP,1960-61, Famiglia Pignatte, serie limitata e siglata Fabiani Fratte Rosa per Il Sestante MI distributori produttori, ph di Marirosa Toscani Ballo

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