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Archive for settembre 2010

Hans Holbein il Giovane, Gli ambasciatori francesi, 1533, National Gallery, Londra

Cicerone dice che filosofare non è altro che prepararsi alla morte. Questo avviene perché lo studio e la contemplazione traggono in certa misura la nostra anima fuori di noi, e la occupano separatamente dal corpo, e questo è come un saggio e una sembianza di morte; oppure, perché tutta la saggezza e i ragionamenti del mondo si riducono infine a questo, di insegnarci a non temere di morire. (…)

La meta della nostra corsa è la morte, è questo l’oggetto necessario della nostra mira: se ci spaventa, come è possibile fare un passo avanti senza agitazione? Il rimedio del volgo è di non pensarci. Ma da quale bestiale stupidità gli può venire un così grossolano accecamento? (…)

Omnem crede diem tibi diluxisse supremum./ Grata superveniet, quae non sperabitur hora.

(“Pensa che ogni giorno sia l’ultimo che risplende per te./ Sopraggiungerà gradita l’ora che non speravi”, Orazio, Epistole, I, IV, 13-14)

È incerto dove la morte ci attenda: attendiamola dovunque. La meditazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire. Il sapere morire ci affranca da ogni soggezione e costrizione.

Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592), Essais/Saggi, 1580-88, Libro I, cap. XX (trad. a cura di Fausta Garavini, Milano, 1966)

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L'imperatrice Teodora, particolare del mosaico del VI sec. nella Basilica di San Vitale, Ravenna

Perché l’oro?

Si pensi alle memorie medievali, sacre, alle icone d’oriente, come alle pale d’altare d’occidente sino ad inoltrato ‘400: l’oro è l’inalterità incorrotta, retaggio imperiale della Roma antica, perciò confluito nel linguaggio cristiano ad indicare altra dimensione, quella divina.

Dunque, con balzo di secoli, perché nel lavoro sensuale di Gustav Klimt (Vienna, 1862 – Neubau, 1918) l’oro?

Prezioso (si ricordi l’appartenenza del viennese alla schiera antica di artisti-artigiani, creatori e decoratori d’oggetti, come di ambienti, e, del resto, il padre era orafo), l’oro, a dire della sacralità liofilizzata dell’oriente bizantino, confinante in antico con le terre slave d’Austria, educate da Costantinopoli, è perciò una delle varianti, non solo cromatiche, ma di traditio, d’essere e forma, che agiscono nel ventre magmatico austrungarico. Sono i Balcani tappeti iconici, cui il giovane Gustav non doveva essere indifferente. Si sa infine del viaggio fondamentale (1903), tra Venezia, Ravenna e Firenze, l’input del cosiddetto periodo d’oro, grazie alla scoperta del mosaico antico, bizantino, che in quell’inizio di secolo, anteriore agli sconvolgimenti bellici mondiali, doveva presentarsi ancora intatto, in decadimento, forse, per l’accumulo dei secoli, ma integro nell’insieme.

È facile intuire l’impressione di bellezza e di eterno che tali superfici musive suscitarono in Klimt: non restava che rendere propria la potenza e la luce di quell’oro per sfondi senza tempo e abiti magnifici, semimonocromi in bidimensione, in cui avvolgere immergere i corpi (non più) tridimensionali delle donne, per creare icone nuove di memoria indelebile: e l’imperatrice Teodora divenne il Ritratto di Adele Bloch-Bauer.

Gustav Klimt, Ritratto di Adele Bloch-Bauer I, 1907, olio e oro su tela, Österreichische Galerie, Vienna

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Mattia Moreni, Umanoide tutto computer, 1996, coll. privata

“Il grande dispiacere che io ho è di morire senza poter vedere o sentire altri pianeti…” Mattia Moreni, dalla video-intervista di Franco Vaccari (1996). 

La cinquantina di grandi tele della retrospettiva cervese presso gli Antichi Magazzini del Sale (giugno-settembre 2008), a cura di Franco e Roberta Calarota, dedicata a Mattia Moreni (Pavia, 1920 – Brisighella, Ravenna, 1999), dà un’idea precisa dell’ultima fase creativa del grande pittore.

Tale mostra, in collaborazione con la Kunsthaus di Amburgo, dov’era precedentemente esposta, città tedesca con cui Moreni ebbe rapporti favorevoli sin dagli anni ’60, si colloca quale fase terminale di un ciclo aperto la primavera scorsa sempre nel ravennate, a Bagnacavallo, presso il Museo Civico delle Cappuccine (aprile-giugno 2008), riguardante il primo decennio della sua attività dal 1941 al 1953.

Moreni giunge alla consapevolezza del grottesco finale, vertice estremo del tragico portato al parossismo, come già sapeva Euripide, dopo una carriera iniziata con una riflessione e un approccio liberatori, neocubista post Guernica, comune a tanti pittori italiani dell’immediato secondo dopoguerra, per lui acceso da una vena espressionista intimamente sua e padana – sebbene egli cominci a Torino -, che ha origini antiche (si pensi alla possanza wiligelmica o alla visionarietà di Vitale da Bologna nel cuore del XIV secolo o, ancora, ai singoli episodi dell’onda anticlassica che percorse il Centro e Nord Italia tra primo e secondo decennio del ‘500) e che sempre lo accompagnerà.

Così è nella ricerca astratta del Gruppo degli Otto (1952), dunque nell’informale di tanti suoi paesaggi desolati, forse gli stessi rimasugli di nulla postatomico che vedeva Clov dalla casa-prigione di Hamm nel Finale di Partita beckettiano (1957), come nel suo ritorno figurativo tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70, col tema ossessivo delle angurie spaccate/sesso femminile. Del resto, per lui ossessione equivaleva a ricerca, quell’indagare continuo fino all’esaurimento, se possibile, della materia trattata.

Mattia Moreni, Ah! quel Freud… la psicoanalisi sul divano, 1997, coll. privata

L’elemento organico devastato dall’inumanità dell’uomo è uno dei perni caratterizzanti il percorso di Moreni, uno degli “ultimi naturalisti” secondo la definizione di Arcangeli: forse anche per questo, seguendo una sorta di strategia della solitudine dopo Parigi, e assecondando un’indole polemica, tendente all’isolamento riflessivo, si ritirerà dagli anni ’60 in poi, fra le colline della Romagna, tra Brisighella e Santa Sofia.

Qui, negli ultimi anni, chiuderà con coerenza strepitosa i pensieri pittorici di una vita, arrivando a scrivere le sue frasi/slogan/pensieri su tele giganti, già allucinate per colori e soggetti scelti: umanoidi plastico-metallizzati, pezzi di arti inferiori uscenti da e parte di macchine tubolari o volti-computer, sessi-rubinetto afflosciati, bamboli e altri volti oblunghi, spesso autoritratti in cui l’età non ha alcun senso – 18, 82, 25, 66 anni, tutto è contemporaneo nel gioco tragico in atto -, attraversati da pustole bioelettroniche ormai incastonate nella carne.

Il tutto travestito da segni semplici, pseudodada, e con cromie acide, accumulazioni verdaste, violacee, fluorescenze violente assediate da reiterati “perché?”. Moreni anticipa qualcosa di molto attuale, la mutazione genetica tuttora in corso, anzi agli albori della modernità che, dice in una delle ultime video-interviste poste nel finale di mostra, è di là da venire, essendo noi ancora parte di un secondo medioevo, agli inizi di un “come saremo” futuro, di cui queste opere sono intuizione e memoria retroattiva.

Mattia Moreni, Mattia Moreni a 25 anni di sua età – Autoritratto n.2, 1986, Galleria d’Arte Contemporanea Vero Stoppioni, Santa Sofia di Forlì

Nb. La video-intervista che segue, fu realizzata a Brisighella (Ra) nel 1996, nello studio di Mattia Moreni. Fa parte del progetto Atelier d’artista di Franco Vaccari, cui collaborarono gli operatori Valerio Dehò, Ennio Bianco e Giorgio De Novellis.

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Italo Calvino visto da Tullio Pericoli, 1987

Venticinque anni fa, nella notte fra il 18 e il 19 settembre scompariva Italo Calvino (Santiago de las Vegas, Cuba, 1923 – Siena, 1985), in conseguenza di un’emorragia celebrale, al termine di un’estate spesa a preparare quel piccolo miracolo che sono le sue Lezioni americane: avrebbe dovuto tenerle ad Harvard e vennero pubblicate postume nel 1988, un testo che chiunque ami la letteratura non può non leggere.

Inutile dire dell’importanza di Calvino, ben oltre il ‘900 italiano (avendo statura internazionale e natura intimamente francese), della sua influenza e freschezza tuttora attuali e della bellezza di tante sue pagine, che presentano sdoppiamenti e più livelli di lettura, oltre ad essere una riflessione costante e sempre più approfondita negli anni sulla natura del romanzo, la sua struttura e le sue possibilità, sino al punto d’arrivo dell’ars combinatoria, in cui si sommano le lezioni di Roland Barthes e Borges, degli studi strutturalisti e semiologici, allegorie e senso del fantastico (già presenti anche nella fase neorealista iniziale), Laurence Sterne e l’arte del racconto delle Fiabe italiane (1956) e, ovviamente, la vicinanza al gruppo Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle) di Queneau, autore di cui Calvino ha curato più di qualche traduzione, come quella meravigliosa dei Fiori blu.

Fra tante opere imperdibili (Marcovaldo, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Palomar, I nostri antenati ovvero Visconte, Barone e Cavaliere, Le cosmicomiche, Il castello dei destini incrociati, etc.), qui lo si saluta col finale di un suo capolavoro, Le città invisibili (1972):

Dice (il Gran Kan): – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.

E Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio.

Italo Calvino – Il sito italiano

Italo Calvino (1923-1985)

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Ugo La Pietra design, Cat and Mouse (specchio console), realizzato da Mosaic Line, Spilimbergo, 1997

Vista la sua storia, potrebbe chiarire in una battuta che differenza c’è, se c’è, tra arte, design e produzione che ne consegue?

La differenza tra l’arte e l’arte applicata (design) è facilmente definibile: chi fa del design è un artista che finalizza il proprio lavoro pensando anche alle necessità dell’individuo o del gruppo sociale a cui si rivolge, mentre l’artista non sente questa necessità.

L’arte è anche arredo, nel senso di medium ambientale del rapporto tra uomo e suo circostante?

L’arte ha sempre avuto anche la finalità di arricchire di significato lo spazio abitativo (sia lo spazio domestico che lo spazio collettivo)

Veniamo al mosaico: nel catalogo della collettiva ravennate del ’97, Oggetti del desiderio: mosaico e design, a pag.133-34, si può leggere un suo intervento: “La riscoperta del mosaico, un modo di creare che sta tra arte e tecnica decorativa. (…) Oggi, i migliori interpreti di questa antica arte sembrano essere alcuni artisti-designer o designer-artisti che operano con progetti che ripropongono questa tecnica nelle nostre case, nelle piazze, nei grandi spazi collettivi. …”

Vorrei sapere, qual è la sua posizione rispetto alla sua esperienza (anche come fondatore della rivista Artigianato tra arte e design) riguardo al mosaico e se nel corso dell’ultimo decennio è mutata.

Nell’ultimo decennio il mosaico è stato ampiamente utilizzato soprattutto come mosaico industriale all’interno di spazi domestici e molto più raramente si può parlare di mosaico artistico-artigianale.

Anche se le mostre e collezioni che ho sviluppato negli anni Ottanta e Novanta hanno fatto capire la possibilità di utilizzo del mosaico artistico nella definizione di oggetti domestici (portavasi, servomuti, specchi, consolle, tavoli, tavolini, ecc), ancora molto rare sono questo tipo di opere proposte dal mercato di oggetti di artigianato artistico.

In particolare, a parte esecuzioni su progetto proprio o di altri designer per arredi pubblici e privati, crede che il mosaico possa avere una sua autonomia artistica, come in parte già suggerito nella prima sezione della mostra sopra citata?

Da sempre, qualsiasi tecnica utilizzabile per realizzare un oggetto artistico, può sviluppare una propria autonomia espressiva (nel caso in cui sia realizzata esclusivamente con una tecnica: ceramica, vetro, legno, tessuto, mosaico, …) o può partecipare con altri mezzi e tecniche alla realizzazione dell’opera.

In questo senso va inteso il mosaico, solo così può rappresentare una tecnica espressiva aperta all’evoluzione del gusto della società e alle diverse scale di realizzazione, dall’oggetto all’architettura.

Parliamo di Severini: su qualunque manuale gli è tributata la giusta importanza storica per aver “riattivato” il mosaico nel ‘900. Vero. Ma, capovolgendone il merito con un’affermazione un po’ eretica, l’operazione pratica di Severini, al di là dei propositi teorici, ha forse fatto più male che bene al mosaico, nel senso di averlo sì fatto tornare in auge, ma considerandolo in funzione pittorica, unicamente traspositiva, per così dire e non originale in sé, bloccandone per decenni l’evoluzione: tutto questo è esagerato? Cosa ne pensa?

L’aver associato il mosaico alla sola dimensione “bidimensionale” è stato il primo equivoco a cui si è aggiunta, ai primi del Novecento, la parentela con la tela (sottolineandone la bidimensionalità).

Queste limitazioni hanno ridotto di molto le potenzialità del mezzo, non solo per la limitazione relativa alla bidimensionalità rispetto alla tridimensionalità oggettuale e ambientale, ma anche per aver imposto all’artigiano esecutore (del quadro o disegno di artista) un “non progetto”, essendo il quadro dell’artista a cui doveva rifarsi un’opera nata non con la finalità di diventare mosaico.

Un po’, ma anche peggio, di ciò che è successo spesso con la ceramica, dove la decorazione del piatto era la riproduzione di un quadro di artista più o meno famoso.

Ugo La Pietra design, Big Sleep, realizzato da Akomena Spazio Mosaico, Ravenna, 1991

C’era una volta…Cenerentola, racconta Charles Perrault. Da pochi anni c’è un rinnovato interesse internazionale per la produzione musiva contemporanea, sia da parte di artisti giovani o già affermati, sia da parte di collezionisti di rilievo. Eppure, sembra sempre che quest’arte fatichi ad arrivare ai livelli raggiunti da pittura, scultura o architettura, non solo alla grande massa del potenziale pubblico, ma anche rispetto alle acquisizioni eventuali di musei pubblici o esposizioni come la Biennale o simili. Nel modo in cui viene considerato il mosaico, tuttora c’è come un odore vago di artigianato, per quanto di qualità, ma in quanto tale in fondo non nobile, una sorta di equivoco esistenziale… Cosa rende il mosaico artistico, una specie di Cenerentola delle Muse? Il mercato, i critici, i direttori di eventi e gallerie? La natura “paziente” della tecnica di quest’arte o l’atteggiamento degli stessi artisti mosaicisti?

È ancora troppo recente l’interesse da parte del mondo del design e dell’arte nei confronti della cultura del fare.

Da troppi anni (come ho avuto modo di scrivere in tanti articoli ed editoriali delle riviste Area, Abitare con Arte, Artigianato tra Arte e Design che ho diretto negli ultimi trent’anni) la cultura del progetto da una parte (design) e l’arte concettuale dall’altra hanno trascurato tutto il patrimonio (lavorazione di vetro, ceramica, alabastro, pietra, cristallo, mosaico, …) riferibile alla ricchezza della nostra cultura del fare.

Così, in ogni area dove per centinaia di anni si sono coltivate alcune arti (vedi il mosaico di Monreale, di Spilimbergo, di Ravenna e le ceramiche di Vietri sul Mare, Caltagirone, Faenza, Nove, Montelupo, … un elenco troppo lungo per essere citato in questa sede) negli ultimi sessanta anni si sono perse le frequentazioni del progetto con la cultura del fare.

Le esperienze di Gio Ponti con l’artigiano artista Fornasetti o con l’argentiere Sabbatini o con l’artigiano artista De Poli, che lavorava il rame smaltato, sono gli ultimi esempi (anni Cinquanta) che hanno illuminato le nostre arti applicate.

Poi la decadenza. Anche se oggi si stanno riscoprendo le arti applicate, dobbiamo constatare che di fatto stiamo parlando di un’area culturale e produttiva estremamente povera ed emarginata (mancano Istituzioni, Musei, Gallerie, mercato, quotazioni di artisti, strumenti di comunicazione ed informazione, oltre alla decadenza degli Istituti d’Arte).

Non è quindi solo il mosaico artistico la Cenerentola!

Tutte le tecniche artistiche, soprattutto quelle con una certa componente artigianale, nel migliore dei casi vengono oggi utilizzate (meglio sarebbe dire sfruttate) dal design e dall’arte, non facendo crescere il valore della struttura artigiana o dell’artigiano artista che rimane sempre nell’ombra.

Ma è anche vero che l’artigiano artista, troppo spesso geloso del proprio saper fare, non si apre alla collaborazione con il designer o architetto o artista.

E dunque cosa servirebbe per una riabilitazione, finalmente, del mosaico d’arte? Quale futuro?

Per la riabilitazione del mosaico come di tutto l’artigianato artistico ci vogliono purtroppo ancora troppe cose:

valorizzazione del genius loci (vale a dire della identità di un territorio e dei propri valori legati alla cultura del fare)

sviluppo di iniziative culturali (mostre, convegni, premi) in spazi istituzionali a livello nazionale e internazionale

sviluppo di iniziative commerciali: mostre, gallerie, inserimento in fiere e mercati

dare valore al ruolo dell’artista-artigiano evidenziando il suo nome in tutte quelle opere dove il progetto artistico o di arte applicata necessita della sue capacità manuali e tecniche

Ma soprattutto ciò che occorre è creare in ogni area di lavorazione un gruppo di persone (di qualità) capaci di sviluppare un’attività di promozione e valorizzazione in continuità.

Un po’ come quello che negli anni Cinquanta fecero alcuni architetti e designer (Zanuso, De Carli, Parisi) per il territorio di Cantù e per la valorizzazione del mobile d’arte.

Cosa pensa dell’eventualità di un museo dedicato al mosaico in Italia?

I Musei sono importanti! C’è museo e museo: basterebbe pensare che in Italia ci sono tanti musei per ogni area dove si coltiva la lavorazione della ceramica e anche questa arte (come il mosaico) non riesce a dare all’artigiano-artista un minimo di visibilità (non esistono come all’estero riviste di settore) e di mercato (rarissime gallerie che si occupano di ceramica contemporanea).

In questo senso penso che i musei siano importanti ma devono saper operare, e operare in un ampio raggio internazionale, come è possibile vedere e apprezzare nelle attività legate al craft europeo.

(Intervista da me realizzata e pubblicata sul terzo numero della rivista annuale Solo Mosaico 2010, Mosca 2010)

Ugo La Pietra – web site

Solo-Mosaico – official website

 

Ugo La Pietra design, Ladybird, realizzato da Antonio Brun e Sergio Moruzzi, Spilimbergo, 1994

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