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Archive for the ‘televisione’ Category

Un tuffo nell’infanzia e pre-adolescenza di chi oggi è quarantenne: dal 12 settembre 2020 fino al 10 gennaio 2021 (al momento l’esposizione è sospesa come da ultimo Dpcm, causa Coronavirus) nella sede di Palazzo Santa Margherita di Fondazione Modena Arti Visive  è visitabile Anime Manga. Storie di maghette, calciatori e robottoni, a cura di Francesca Fontana ed Enrico Valbonesi.

 L’esposizione è realizzata a partire dai materiali conservati all’interno della Collezione Museo della Figurina, donata nel 1992 da Giuseppe Panini al Comune di Modena e oggi gestita da FMAV.

Come indica il titolo, la mostra si focalizza sul legame tra manga e anime, mettendo in evidenza come nella maggior parte dei casi i cartoni animati giapponesi siano derivati da prodotti editoriali, sebbene non manchino esempi del percorso inverso, per cui celebri anime hanno ispirato la creazione dei corrispettivi manga. Gli anime  risultano, tra l’altro, i protagonisti assoluti dell’editoria delle figurine dagli anni Ottanta in poi, per citarne solo alcuni:  Kiss me Licia, L’incantevole Creamy, Occhi di gatto, Holly e Benji…

Il percorso espositivo illustra la nascita e le modalità di diffusione tipiche di queste forme di intrattenimento, insegna a decodificarne il linguaggio peculiare e i segni grafici, spiega i generi principali in cui vengono suddivisi i manga, da quelli per l’infanzia – i cosiddetti kodomo – agli spokon a tema sportivo, passando attraverso i cartoni animati del World Masterpiece Theater tratti da opere letterarie occidentali. Alcune sezioni sono dedicate al genere femminile shōjo, di cui fanno parte le celeberrime maghette e le storie sentimentali, e shōnen , storie avventurose per il pubblico maschile, con un focus sui mitici robottoni come Mazinga e Danguard. 

www.fmav.org


Irene Guzman press

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pia-pera

Una rivelazione: non conoscevo questo libro e quest’autrice sino a qualche settimana fa, quando ne ho sentito parlare nella stupenda trasmissione di Edoardo Albinati Amabili Testi. Un curioso tra i libri degli altri, in onda ogni lunedì verso le 21.15 su Rai 5, in particolare nella puntata dedicata ai Marras. A proposito, vi consiglio di non perdere i prossimi appuntamenti e di recuperare in rete i precedenti: lo scrittore va a trovare a casa artisti, fotografi, musicisti, attori, registi e altri colleghi suoi non per la tradizionale intervista sul loro pensiero e lavoro, ma partendo dalle loro biblioteche personali, poiché poche cose svelano meglio le intimità d’ognuno che i libri raccolti nel corso del proprio cammino. Aggiungo, per amore, in formato cartaceo.

E appunto Pia Pera (1956-2016) in quest’ultimo suo testo (per la verità è da poco uscito, postumo, Le virtù dell’orto) intitolato Al giardino ancora non l’ho detto da un verso di Emily Dickinson, pubblicato all’inizio di quest’anno qualche mese prima di andarsene lo scorso luglio, narra con sincerità estrema e semplice una verità quotidiana: pagina dopo pagina, tutte splendenti, si trova il senso profondo di essere umani anzitutto con se stessi e dal punto di vista di una persona malata che sa di avvicinarsi alla morte (“Che sia questo della malattia il periodo più felice della mia vita, forse il più libero?”), ma che grazie sia all’orto-giardino creato nel corso di una vita (e forse andrebbe rivalutata la possibilità di morire in casa propria, forse il comodo e civile e talvolta necessario servizio d’hospice non andrebbe usato sempre, quasi a rimuovere, a pulire ciò che spetta a tutti noi, altro segno del conformismo laico beneducato regolativo ipocrita e soffocante del nostro tempo in azione sin dall’infanzia) sia grazie all’altro orto-giardino colorato, profumato d’affetti intensi, dagli amici ai collaboratori al cagnolino, cerca di affrontare le paure inevitabili e le molte difficoltà acuite dall’avanzare della sclerosi laterale amiotrofica con una serenità e una grazia che incredibilmente, o forse coerentemente, si sentono crescere riga dopo riga, mano a mano ci si avvicina alla fine: “Allora bisogna soltanto starsene in pace, e non rinnegare nulla, e rallegrarsi di avere imparato quel poco. Anche quel poco aiuta.”.  Che lezione di saggezza, senza volerlo essere. E viene in mente Montaigne: “La meditazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire. Il sapere morire ci affranca da ogni soggezione e costrizione.” Il mio grazie dunque ad Albinati e a Pia Pera.

I haven’t told my garden yet – no, il giardino si è già abituato a vedere altri che se ne prendono cura. Certo, il mio ruolo non è cessato: scelgo chi lo fa al mio posto. Ma in un senso più profondo, non sono mai stata io sola a prendermi cura del giardino: anche il giardino si prendeva cura di me quando, in apparenza, mi davo tanto da fare. Adesso il giardino è il grembo in cui passo questo tempo fisicamente poco attivo in un senso di pace, serenità. È quello che vedo dalla finestra, quando sono sdraiata sul divano a leggere. Ne avverto la presenza benefica nonostante, in queste giornate troppo calde, non mi spinga fino ai suoi confini. Il giardiniere e la morte si configura allora così: il rifugiarsi in un luogo ove morire non sia aspro. Ove morire faccia un po’ meno paura. Dove sia possibile non darsi troppa importanza per l’inevitabile non esserci più, un giorno. Accettando con calma di essere qualcosa di piccolo e indefinito, un puntino nel paesaggio.”

Pia Pera, Al giardino ancora non l’ho detto, Ponte alle Grazie, Milano 2016.

PS. A ognuno di voi auguro festività liete. Ci ritroveremo nel 2017.

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Sidney Lumet (1924-2011), Oscar alla carriera nel 2005

A poco meno di due mesi dalla scomparsa, lo scorso 9 aprile, non so dire quanto manchi Sidney Lumet (Filadelfia, 1924 – New York 2011), cineasta che ho sempre trovato immenso nel suo essere asciutto, indagatore preciso della natura umana, dei suoi meandri più scuri e quotidiani, autore di una serie di perle luminose che avendo natura di classici, tuttora hanno e avranno da dire a intere generazioni pur avendo 40 o 50 o più anni alle spalle, tanto quanto sono a noi contemporanee le opere dei tragici greci scritte 25 secoli or sono o forse 25 minuti fa.

In particolare avvicino a Eschilo e a Sofocle questo tragico antico nato negli States del ‘900, che usa la realtà a lui nota come sfondo su cui inserire archetipi senza tempo del ventre umano per porsi e porci domande, attualizzando modalità della tragedia classica per narrare non tanto com’è diventato l’uomo, ma forse com’è sempre stato, nel bene e nel male, con eroi insieme negativi e positivi, come già Edipo, perché “l’animale sociale” del seme di Adamo (o meglio dei sassi di Deucalione e Pirra) è complesso più di quanto non voglia riconoscere a se stesso.

La parola ai giurati (1957)

Lumet, noto ai più per successi internazionali quali Serpico (1973) e Quel pomeriggio di un giorno da cani (1974), che hanno contribuito alla consacrazione di Al Pacino dopo Il padrino di Coppola, o Assassinio sull’Orient-Express (1974), con un cast all stars, per me resta anzitutto il regista di alcune pietre imprescindibili del grande schermo: La parola ai giuratiTwelve Angry Men (1957), il suo esordio con protagonista l’amico di una vita, il grandissimo Henry Fonda, dramma eschileo sulla giustizia, sul senso del diritto e dell’innocenza sino a prova contraria, da garantirsi a chiunque e oltre ogni apparenza, specie se venata di razzismo. Un film da vedere e rivedere cento e più volte, anche da un punto di vista fotografico (merito di Boris Kaufman, lo stesso di Fronte del porto di Kazan).

A seguire, l’altro capolavoro assoluto, Network – Quinto potere (1976), a dir poco profetico, con un’interpretazione giustamente premiata dall’Oscar del predicatore folle “Howard Beale”- Peter Finch (attore purtroppo scomparso prima di riceverlo), e della spietata, allucinata dirigente televisiva “Diana Christensen”- Faye Dunaway, senza scordare alcuni comprimari da applauso, fra cui William Holden e Robert Duvall: se volete capire meglio la natura della televisione, il suo potere di persuasione di massa, dunque anche il nostro tempo, oltre ad un’analisi impietosa del cinismo e del delirio di onnipotenza umano, dovete conoscere questa pellicola, farla vostra, studiarla scena per scena.

Onora il padre e la madre (2007)

Infine, l’ultima zampata eschileo-sofoclea, Onora il padre e la madreBefore the Devil Knows You’re Dead (2007), ancora una volta con una serie di attori perfetti, in piena forma tragica, fra cui spiccano i “fratelli Hanson”- Philip Seymour Hoffman ed Ethan Hawke, e il di loro padre “Charles Hanson”- Albert Finney: con una serie di flashback micidiali, con tanto di rumore da incastro degli ingranaggi del destino, meccanismo implacabile azionato però dalla volontà umana, Lumet ricostruisce tutti i pezzi della storia dai vari punti di vista sino all’inevitabile finale tragico, col padre che, guidato dalle Erinni che abitano gli abissi di ogni uomo, soffocherà il figlio ferito in ospedale, avendolo scoperto insieme al fratello mandante della rapina nella gioielleria di famiglia, in cui muore accidentalmente la loro madre, la di lui amatissima moglie.

Conclusione quasi shakespeariana, coerentemente senza sconti, con la dissoluzione del nucleo familiare nel sangue: un’assenza di catarsi al termine del racconto su cui meditare, proprio perché vedendolo, essa accada nelle vite degli spettatori, seduti sulle poltrone-gradinate del cinema, più che mai in questo caso versione moderna del teatro antico, dell’insopprimibile bisogno umano di narrare, vedere, ascoltare, capire.

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Ecco qualche verso di quarta categoria dedicato all’insigne critico Vittorio Sgarbi, che nel finale dell’intervista barbarica dello scorso 13 novembre 2010 su La7 dalla Bignardi (guardate il video a 7 minuti e 50), ha confuso un noto Tiziano, il ritratto di Jacopo Strada, con un altrettanto noto Lorenzo Lotto, forse mal ricordando il ritratto di Andrea Odoni: neanche i fondamentali distingue più.

Ma parla parla parla parla di sesso (sarà impotente?) e come sempre di se stesso. E grazie alla politica va cumulando cariche e incarichi in ambito storico artistico dalla Sicilia al Veneto, sottraendoli a chi per merito o per età potrebbe far meglio, benché meno o nulla televisivamente appariscente e famoso.

Ultimamente in mostre e interviste s’accompagna a una pornostar: per far vedere che o dare a intendere cosa? Ma non è esageratamente superato come escamotage? E soprattutto la pagherà come figurante o come badante?

Sgarbi Vittorio una novità

venti e più anni fa:

urla insulti sputi strepiti,

la nuova critica d’arte in tivvù.

E oggi? Un vecchio che si ripete

e nulla più.

Lorenzo Lotto, Ritratto di Andrea Odoni, 1527, Royal Collection, Castello di Windsor

Tiziano Vecellio, Ritratto di Jacopo Strada, 1566, Kunsthistoriches Museum, Vienna

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Questo post, volutamente privo di immagini, è dedicato a Mina Welby e Beppino Englaro (e a sua moglie), coloro che con coraggio e dignità sono rimasti.

Perché le loro battaglie civili e pacifiche sono per tutti e la democrazia vince quando si possono aggiungere diritti, anziché negarli (discorso estendibile anche ad altri tabù nostrani, come le unioni civili fra coppie omosessuali). Di insulti personali, di strumentalizzazione e violenza religiosa, politica, giornalistica ne hanno subite e duramente: ma non sono stati capaci di fermarli.

Perché ritengo tutti i movimenti pro life, pro family day, pro accidenti loro, ipocriti e pronti non al silenzio, alla pietà, ma a giudicare, a condannare col dito puntato, a mettersi in cattedra e dichiarare (anche da parte di chi governa, per puro opportunismo) che la larva cui s’era ridotto il corpo di Eluana Englaro poteva benissimo generare. Cose bestiali. Quando politiche vere di assistenza pratica, economica e psicologica al malato terminale o degenerativo e alla sua famiglia non esistono o sono del tutto insufficienti: anzi proprio alla famiglia e spesso alle donne viene lasciato tutto questo carico.

Perché questo non è uno spot pro eutanasia obbligatoria per tutti, ci mancherebbe: sarebbe nazista affermare tale “pulizia” sociale. Riguarda solo i casi di malattia irreversibile e anche in tali circostanze, chiunque decida di sopportare la sofferenza e voglia essere curato, alimentato, tenuto in vita dalle macchine, può e deve farlo, deve essergli permesso di farlo sino all’ultimo soffio della sua vita. Ma chi viceversa non ritiene più vita tale stato di cose, pur avendo ricevuto e tentato ogni aiuto possibile, dovrebbe essere lasciato libero di scegliere, di andare, senza criminalizzare né lui né i suoi familiari. Se Papa Wojtyla fosse stato intubato dopo l’ultima crisi respiratoria, forse sarebbe sopravvissuto qualche giorno in più: preferì evitare un’agonia ancor più lenta. Poté farlo.

Anch’io in caso di male o coma incurabile vorrei mi fosse legalmente concesso di non proseguire in nessun accanimento terapeutico, incluse idratazione e alimentazione indotte.

Perché film come Mare dentro (2004) e Le invasioni barbariche (2003) mi avvicinarono al tema e mi aiutarono a capire, a riflettere.

Perché non accada più che un Monicelli o un semplice sconosciuto si lancino dal quinto piano di un ospedale per liberarsi: sono notizie, fatti che gelano il sangue.

Perché quando Piero Welby morì il 20 dicembre 2006 mi commossi.

Perché, da credente, provai rabbia una volta di più per l’indegna decisione vaticana di negare i funerali religiosi richiesti dalla vedova, credente, che per decenni aveva accudito solo con la forza di un amore infinito suo marito che inesorabilmente decadeva. Quale scena vedere le porte di San Giovanni Bosco chiuse, mentre solo dieci giorni prima, per la morte di Pinochet venivano spalancate quelle della cattedrale di Santiago del Cile, con l’incenso e l’organo a coprire il puzzo di sangue e le urla degli assassinati che uscivano da quella bara.

Un tempo avevo sogni sulla Chiesa. Una Chiesa che procede per la sua strada in povertà e umiltà, una Chiesa che non dipende dai poteri di questo mondo. Sognavo che la diffidenza venisse estirpata. Una Chiesa che dà spazio alle persone capaci di pensare in modo più aperto. Una Chiesa che infonde coraggio, soprattutto a coloro che si sentono piccoli o peccatori. Sognavo una Chiesa giovane. Oggi non ho più di questi sogni. Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare per la Chiesa. Guardo al futuro.” Carlo Maria Martini, da Conversazioni notturne a Gerusalemme (Milano, 2008)

Infine, perché Mina Welby l’ho incontrata un anno fa, nel dicembre 2009, a Ravenna, nella sala conferenze di un hotel del centro, dov’erano pochi i cittadini venuti ad ascoltare (del resto l’iniziativa non era organizzata né interessava il PD che qui regna sovrano: perché dunque pubblicizzarla?). Ricordo che prima del dibattito pubblico, sia io che lei eravamo rapiti dalle belle immagini appese alle pareti: del tutto casualmente era in corso una mostra fotografica sul delta del Po e sugli uccelli d’acqua dolce e una delle grandi passioni di Piero Welby era la pesca su fiume.

Ci conoscemmo così, parlando di quella passione che li univa, delle loro passeggiate, del sole sui loro volti, dei suoni della natura, di amore, di vita.

Il Calibano – il blog di Piero e Mina Welby

Associazione Luca Coscioni

Vieni via con me 1Vieni via con me 2

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