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Archive for febbraio 2013

Adriano Olivetti (1901-1960)

Adriano Olivetti (1901-1960)

“Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti?

Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?

Possiamo rispondere: c’è un fine nella nostra azione di tutti i giorni, a Ivrea, come a Pozzuoli. E senza la prima consapevolezza di questo fine è vano sperare il successo dell’opera che abbiamo intrapresa.

Perché una trama, una trama ideale al di là dei principi dell’organizzazione aziendale ha informato per molti anni, ispirata dal pensiero del suo fondatore, l’opera della nostra Società.

Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancor del tutto incompiuto, risponde ad una semplice idea: creare un’impresa di tipo nuovo al di là del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l’uno contro l’altro, non riescono a risolvere i problemi dell’uomo e della società moderna.

La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole, ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare, avviando quella regione verso un tipo di comunità nuova ove non sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue umane vicende, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra un avvenire, una vita più degna di essere vissuta.

La nostra Società crede perciò nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora in eliminate tra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto.” Adriano Olivetti, Discorso ai lavoratori di Pozzuoli, 23 aprile 1955, da Ai lavoratori, Edizioni di Comunità, 2012[1]

Olivetti fra i suoi operai

Olivetti fra i suoi operai

In questi giorni d’elezioni e di miserrime promesse elettorali, meglio rileggersi i discorsi di Adriano Olivetti (1901-1960), faro non raro ma unico della storia non solo imprenditoriale italiana.

Una vicenda incredibile la sua, d’un’utopia realizzata (“La luce della verità, usava dirmi mio padre, risplende soltanto negli atti, non nelle parole”) e dissoltasi con la sua scomparsa prematura per trombosi celebrale su un treno diretto in Svizzera.

Nato a Ivrea, figlio d’un ebreo, Camillo, e una valdese, Luisa Revel, sin da ragazzo crebbe in una famiglia di straordinaria apertura socio-pedagogico-culturale. Nel ’25 ebbe a viaggiare in America dove studiò il sistema produttivo più avanzato del mondo, poi tornato nell’Italia mussoliniana, frequentò Gobetti, casa Levi, Carlo Rosselli e Ferruccio Parri coi quali collaborò per organizzare la fuga di Turati in Francia.

Quando all’inizio degli anni ’30 il padre gli passò il testimone dell’azienda di macchine da scrivere da lui fondata e peraltro già ben avviata, Adriano cominciò quella rivoluzione progressiva e totale che portò allo stile Olivetti  noto nel mondo. E non senza difficoltà, dovute al fascismo prima (nel ’43 fu anche incarcerato a Regina Coeli) e ai partiti repubblicani poi, oltre alla totale miopia e grettezza degli industriali suoi colleghi: “se teorizzo qualcosa di irrealizzabile, incontrerò sicuramente consenso in qualche salotto, se vado oltre, spiegando come realizzarlo tecnicamente, nel dettaglio, rischio di rendermi immediatamente ridicolo, se poi lo realizzo, quel qualcosa, vengo trattato con ostilità.”

Olivetti Lettera 22

Olivetti Lettera 22

E cosa realizzò Adriano Olivetti è ormai storia: all’apice della sua ascesa, negli anni ’50, i suoi dipendenti in Italia e nel mondo toccarono le 36.000 unità complessive, oltre all’acquisizione dell’americana Underwood con la sua strategica rete commerciale, senza contare le nuove frontiere che si stavano studiando, l’Europa dell’Est e la Cina, a proposito di lungimiranza.

Nel frattempo ai vertici dell’azienda erano stati posti intellettuali, poeti e scrittori come Geno Pampaloni, Volponi, Fortini, Ottieri, oltre alle collaborazioni culturali a vario titolo con Moravia, Pasolini, Chagall, Eduardo de Filippo, De Sica, Gassman etc., ben prima dello slogan sessantottino la fantasia al potere.

Agli operai erano date buste paga più alte della media nazionale, mense, biblioteche, quartieri abitativi, trasporti, asili, il tutto con un’architettura davvero in relazione al circostante e all’individuo. Dal ’57, in anticipo pure sui sindacati, alla Olivetti la settimana lavorativa era di 45 ore con tutti i sabati liberi.

Tutto questo era possibile perché Adriano davvero usava i profitti per reinvestirli in servizi e ricerca ai fini di migliorare la stessa produttività aziendale sempre nel rispetto dell’uomo (e come stridono al confronto i casi degli ultimi anni, da Parmalat all’Ilva, alla stessa Fiat). Certo, nessun dirigente avrebbe mai avuto stipendi centinaia e centinaia di volte superiori a quello di un operaio. Il fine era più elevato del profitto per il profitto. Oltre ogni ideologia, alla Olivetti stavano realizzando un sogno chiamato Comunità. Era questo il fine e il motore ideale che muoveva fondatore e collaboratori: al centro l’uomo da non abbandonare alla solitudine individualistica o alla massa indistinta, due facce della stessa medaglia, ma da inserire in un contesto migliore, farlo sentire parte di un  gruppo di suoi simili in un territorio, insomma una comunità. Anzi la Comunità, concetto nato durante la guerra (si veda il testo olivettiano fondamentale L’ordine politico delle Comunità, 1945) che porterà a fondare una casa editrice e un movimento che però non incontrerà l’affermazione sperata, prendendo nel ’58 solo l’1% dei consensi.

Olivetti Programma 101

Olivetti Programma 101

Il successo e il denaro per costruire quest’utopia nella realtà veniva dalle favolose macchine Olivetti, eleganti e sempre all’avanguardia tecnica e di design: si ricordino la calcolatrice meccanica Divisumma di Nicola Capellaro del ’48, la mitica Lettera 22 del ’50, sino alla svolta nella ricerca elettronica con l’assunzione dal ’54 di una delle migliori menti esistenti nel campo, l’italo cinese Mario Tchou, accanto a cui Adriano mise suo figlio Roberto. I risultati arrivarono qualche anno dopo, nel’60, col primo calcolatore Elea 9003, cui seguì l’Elea 6001. Purtroppo anche Tchou morirà troppo presto, nel ’61, in un incidente stradale.

Da lì in poi il disastro. Crollo delle azioni nel ’62 e cordata di banche e avvoltoi (tra cui Cuccia di Mediobanca e Valletta della Fiat) che rilevarono il tutto decidendo in primis di eliminare il settore più dispendioso in quanto a ricerca (e ovviamente il più carico di futuro), l’elettronica, ceduta all’americana General Electric. E dire che l’ultimo frutto nato pochissimi anni dopo fu il primo personal computer al mondo, Programma 101 ideato da Pier Giorgio Perotto. Così l’Italia si giocò per sempre il suo ruolo di leader in ciò che più tardi riusciranno a fare Jobs, Gates e altri protagonisti della scena contemporanea. Viene rabbia, vero?

Il fatto è che stavolta non me la sento di concludere speranzosamente, almeno non a breve termine: non credo che neanche queste elezioni cambieranno molto il mio Paese, che amo disperatamente e che vedo sfinito, ingovernabile, intrappolato nel marciume. Chissà, forse ha ragione Marco Peroni che insieme al disegnatore Riccardo Cecchetti ha dedicato alla figura del leggendario imprenditore di Ivrea uno stupendo libro disegnato, Adriano Olivetti, un secolo troppo presto (BeccoGiallo, 2011), in cui s’immagina un’intervista impossibile fra Olivetti (fra l’altro usando le parole tratte dai suoi discorsi per le risposte), proprio a poche ore dalla morte su quell’ultimo fatale treno, e una laureanda dell’anno accademico 2060-2061, ovvero cento anni dopo, quando le sue idee sono ormai diventate realtà, anzi patrimonio comune, in una parola Comunità.

Fondazione Adriano Olivetti.it

Olivetti beccogiallo


[1] A questo proposito, faccio notare che a differenza di qualsiasi altro testo abbia mai letto, col divieto di pubblicare qualsiasi riga nel presunto rispetto del diritto d’autore, qui, coerentemente al pensiero del fondatore, a pag. 2 si legge “Condividiamo la conoscenza: i testi contenuti in questo libro sono rilasciati con licenza Creative Commons. Puoi condividere e diffondere quest’opera riportandone sempre l’origine e senza fini di lucro.”

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Gino Severini, Maternità, 1916, Museo dell'Accademia Etrusca e della città di Cortona

Gino Severini, Maternità, 1916, Museo dell’Accademia Etrusca e della città di Cortona

In genere ai Musei di San Domenico a Forlì lavorano bene sulle mostre temporanee: ricordo con piacere la riscoperta di un grande artista come Wildt lo scorso anno e precedentemente le belle monografiche dedicate a Melozzo, Palmezzano, Silvestro Lega, il Cagnacci, Canova, tutti nomi, alcuni dei quali forlivesi, presenti in città con almeno un’opera su cui costruire un evento di portata nazionale.

Essendo stata la città di Mussolini (nato a Predappio), numerose sono tuttora le testimonianze architettoniche del periodo fascista. Dunque partendo da questo e con decenni di distanza alle spalle, gli organizzatori hanno pensato che si potesse ormai ragionare serenamente sull’arte del ventennio, rivalutando il buono e non retorico che pure c’è stato.

Felice Casorati, Silvana Cenni, 1922, Coll. privata

Felice Casorati, Silvana Cenni, 1922, Coll. privata

Sin qui tutto bene, era anzi tempo di una riconsiderazione onesta sul tema proposto. Solo che Novecento volendo essere una mostra onnicomprensiva (il sottotitolo parla chiaro: arte e vita in Italia tra le due guerre), presenta un affastellamento di opere (talvolta con sezioni non ben amalgamate fra tendenze neo e post-futuriste, metafisiche, del cosiddetto realismo magico e del più generale ritorno all’ordine) fra dipinti, progetti architettonici, sculture, manifesti pubblicitari, design di mobili e moda (peraltro entrambe fra le parti più interessanti dell’intero percorso) tale che lo sguardo alla fine è esausto e laddove vorrebbe approfondimenti trova solo cenni o addirittura assenze (il mosaico, ad esempio, povera cenerentola, che proprio in quegli anni comincia a tornare in auge), mentre di decine e decine di quadri si sarebbe potuto fare a meno: il messaggio sarebbe arrivato comunque e meglio.

Enrico Prampolini, Dinamica dell'azione (Miti dell'azione. Mussolini a cavallo), 1939, GNAM, Roma

Enrico Prampolini, Dinamica dell’azione (Miti dell’azione. Mussolini a cavallo), 1939, GNAM, Roma

Giorgio De Chirico, Sala d'Apollo (Violon), 1920, Coll. privata

Giorgio De Chirico, Sala d’Apollo (Violon), 1920, Coll. privata

Renato Bertelli, Profilo continuo. Dux, 1935, Palazzo Pitti, Firenze

Renato Bertelli, Profilo continuo. Dux, 1935, Palazzo Pitti, Firenze

Naturalmente i nomi che dovevano esserci ci sono tutti (Sironi, Funi, Campigli, Soffici, De Chirico, Savinio, Severini, Balla, Prampolini, Cambellotti, Dottori, Casorati, Donghi, Oppi, Cagnaccio di San Pietro, Fausto Pirandello, Guidi, Cagli, Guttuso, Carrà, Maccari, la scoperta del triestino Cesare Sofianopulo, Bertelli, Martini, Messina, Manzù, Andreotti, Dudovich, Sepo, Schawinsky, Piacentini, architetto del regime e designer per Fiammetta Sarfatti, Gio Ponti, Ravasco, Ferragamo con le sue modernissime scarpe anni ‘30, etc.) e una passeggiata fra questi protagonisti si può fare, tenendo presente il problema della prolissità e ridondanza con la necessità conseguente di trascurare molte opere, inconveniente purtroppo già riscontato in un’altra super-collettiva forlivese del 2010, quella sui Fiori – Natura e simbolo dal Seicento a Van Gogh: evidentemente a San Domenico, non possedendo il dono della sintesi, lavorano meglio sulle monografiche, le stesse citate qualche riga sopra.

Cesare Bazzani, Il nuovo Foro di Forlì, 1931 ca.

Cesare Bazzani, Il nuovo Foro di Forlì, 1931 ca.

Xanti Schawinsky, Sì, 1934

Xanti Schawinsky, Sì, 1934

A proposito di Novecento, per fare chiarezza sul significato storico artistico del movimento è bene citare alcuni passi illuminanti del suo maggiore “non-critico”, Massimo Bontempelli, credo utili anche quali guida ideale all’esposizione corrente: “Se è vero che l’arte vede risplendere oggi davanti a sé nuove possibilità, queste dovranno tenersi ugualmente lontane dalla bellezza e dall’interiorità. Non si tratta più di far fremere la pelle e far risaltare i muscoli, né di esplorare la propria anima. L’importante è creare oggetti, da collocare fuori di noi, bene staccati da noi; e con essi modificare il mondo. (…) È lo spirito dell’architettura. L’architettura diventa assai rapidamente anonima. L’architettura  rifoggia a suo modo la superficie del mondo: sa continuarsi e compiersi con le forme della natura. Lo stesso deve fare la poesia, foggiando favole e personaggi che possano correre il mondo come giovani liberati che hanno saputo dimenticare la casa ove nacquero e ove hanno compiuto la loro maturazione.” (Dicembre 1926)

Achille Funi, La terra, 1921, Coll. privata

Achille Funi, La terra, 1921, Coll. privata

Antonio Donghi, Giocoliere, 1936, Unicredit Art Collection, Roma

Antonio Donghi, Giocoliere, 1936, Unicredit Art Collection, Roma

Ubaldo Oppi, I tre chirurghi, 1926, Musei Civici, Vicenza

Ubaldo Oppi, I tre chirurghi, 1926, Musei Civici, Vicenza

“Quei due termini della pittura quattrocentesca – precisione realistica e atmosfera magica – aveva tentato di riprenderli il cubismo: ma operò in modo letterario, con un formulario dialettico, con un’anima impopolare, e finì per bruciare sul gran rogo futurista insieme con gli altri relitti del romanticismo. Sia ben chiaro che tutto questo non si è detto per fare della storia. Non abbiamo voluto se non dare qualche segnalazione, in quanto tali analogie possono illuminare il nostro istinto: possono chiarire meglio, agli altri e a noi stessi, che cosa si debba intendere per «novecentismo». In nessun’altra arte troviamo nel passato parentele più strette che con quella pittura di cui abbiamo parlato, in nessuna vediamo così in pieno attuato quel «realismo magico» che potremmo assumere come definizione della nostra tendenza. E in quei pittori italiani del Quattrocento, molto più utilmente che in tanti scrittori che furono citati da ogni parte, una critica avveduta potrebbe scoprire i veri precedenti e maestri di certa nostra prosa modernissima. (…) Il futurismo fu – ed era necessario – avanguardista e aristocratico. L’arte novecentista deve tendere a farsi «popolare», ad avvincere il «pubblico». Non husserlcrede alle aristocrazie giudicanti, vuol fornire di opere d’arte la vita quotidiana degli uomini, e mescolarle a essa. In altre parole, il novecentismo tende a considerare l’arte, sempre, come «arte applicata», ha un’enorme diffidenza verso la famosa «arte pura». L’artista sia soprattutto un eccellente «uomo di mestiere». (…) Per questo insieme di ragioni il novecentista non vi parlerà mai di «capolavoro», parola romantica ed equivoca. Il novecentismo cerca di aiutare lo sviluppo di quell’arte che potrei chiamare d’uso musei quotidiano.” (Giugno 1927)

Marcello Piacentini, Sedia per la casa di Fiammetta Sarfatti, 1933, Wolfsoniana, Genova

Marcello Piacentini, Sedia per la casa di Fiammetta Sarfatti, 1933, Wolfsoniana, Genova

Salvatore Ferragamo, Sandalo, 1938 (non in mostra)

Salvatore Ferragamo, Sandalo, 1938 (non in mostra)

Gio Ponti, I Progenitori, 1925 ca., Museo di Doccia, Richard Ginori, Sesto Fiorentino

Gio Ponti, I Progenitori, 1925 ca., Museo di Doccia, Richard Ginori, Sesto Fiorentino

Francesco Messina, Pugile, 1930, Coll. ENI Spa

Francesco Messina, Pugile, 1930, Coll. ENI Spa

Così Bontempelli. In finale di battuta aggiungo un paio di provocazioni: in certe parole non sembra di leggere clamorose anticipazioni pop? Inoltre, in questa volontà d’affermazione dell’esistere quotidiano (benché anonimo) sull’essere ideale ma astratto, non si possono rintracciare consonanze con la futura linea esistenzialista sartriana, che origina dalle riflessioni heideggeriane di fine anni ’20? En passant, ricordo che il filosofo tedesco capovolse l’insegnamento del suo maestro Husserl, posponendo l’essere quale conseguenza dell’esistere.

Pur con le dovute differenze e diversissime conseguenze ed esiti, forse qualcosa di comune era nell’aria.

Novecento – sito ufficiale della mostra

Mario Sironi, L'Italia Corporativa, 1936, Coll. privata , Roma

Mario Sironi, L’Italia Corporativa, 1936, Coll. privata , Roma

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Jan Vermeer, Veduta di Delft, 1660 ca., Mauritshuis, L'Aia

Jan Vermeer, Veduta di Delft, 1660 ca., Mauritshuis, L’Aia

Seppi che quel giorno era avvenuta una morte che mi procurò molto dolore, quella di Bergotte. È noto che la sua malattia durava da molto tempo. Non, evidentemente, quella di cui aveva sofferto inizialmente e che era naturale. La natura sembra capace di dare soltanto malattie piuttosto brevi. Ma la medicina si è arrogata l’arte di prolungarle. (…)

Morì nelle circostanze seguenti: a causa di una crisi di uremia abbastanza leggera, gli avevano prescritto il riposo. Ma poiché un critico aveva scritto che nella Veduta di Delft di Vermeer (prestata dal museo dell’Aja per una mostra di pittura olandese), quadro che egli adorava e pensava di conoscere a fondo, una piccola ala di muro giallo (che non si ricordava) era dipinta così bene da sembrare, se la si guardava isolatamente, una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che sarebbe bastata a se stessa, Bergotte mangiò un po’ di patate, uscì ed entrò alla mostra. Sin dai primi gradini che ebbe da salire, fu preso da mancamenti. Passò davanti a molti quadri ed ebbe l’impressione dell’aridità e dell’inutilità di un’arte così artificiosa, e che non valeva le correnti d’aria e di sole di un palazzo di Venezia, o di una semplice casa in riva al mare. Infine si trovò davanti al Vermeer che si ricordava più splendente, più diverso da tutto quel che conosceva, ma dove, grazie all’articolo del critico, notò per la prima volta dei piccoli personaggi in blu, che la sabbia era rosa e infine la preziosa materia della piccolissima ala di muro giallo. I suoi mancamenti aumentavano; egli fissava lo sguardo, come un bambino su una farfalla gialla che vuole catturare, sulla preziosa piccola ala di muro. “È così che avrei dovuto scrivere, diceva. I miei ultimi libri sono troppo scarni, sarebbe stato necessario passare parecchi strati di colore, rendere la frase in se stessa preziosa, come questa piccola ala di muro giallo.”

Tuttavia la gravità dei suoi capogiri non gli sfuggiva. In una bilancia celeste gli appariva, su uno dei piatti, la sua stessa vita, mentre l’altro conteneva la piccola ala di muro dipinta così bene di giallo. Sentiva di aver dato incautamente la prima per la seconda. (…) Era morto. Morto per sempre? Chi può dirlo? (…)

Lo seppellirono, ma tutta la notte funebre, nelle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a tre a tre, vegliavano come angeli dalle ali spiegate e sembravano per colui che non era più, il simbolo della sua resurrezione.

Marcel Proust (1871-1922), da La Prisonnière (traduzione di Giovanna Parisse, Roma 1990) in À la recherche du temps perdu (1913-1927).

PS. Lorenzo Renzi  in Proust e Vermeer, Apologia dell’imprecisione (Il Mulino, Bologna 1999) chiarisce “l’imprecisione creatrice” del grande francese che sostituì l’effettivo tetto giallo presente nel dipinto con “l’ala di muro” fatale per Bergotte.

Jacques-Émile Blanche, Ritratto di Marcel Proust, 1892, Musée d'Orsay, Parigi

Jacques-Émile Blanche, Ritratto di Marcel Proust, 1892, Musée d’Orsay, Parigi

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pizzi cannella ceramiche 2012

“Quante ombrose dimore hai già sfiorato,/ anima mia, senza trovare asilo:/ dal sogno rifluivi alla memoria,/ da memoria tornavi a essere un sogno,/ per via ti sorprendeva la bufera.”, Mario Luzi, da Poesie Sparse (1945-48) 

Mostra nitida, in quanto a esposizione, e carica di mistero, in quanto ad artista, quella inaugurata lo scorso 20 gennaio al Museo Internazionale della Ceramica di Faenza, a confermare la qualità ritrovata di questo peraltro bellissimo museo che grazie all’apporto di Claudia Casali, direttrice e curatrice di questa esposizione, aggiunge una perla nuova alla propria storia e a quella della ceramica intesa come fatto d’arte, dopo aver chiuso lo scorso anno con Paladino l’omaggio alla Transavanguardia iniziato nel 2010.

Piero Pizzi Cannella, Rosso, 2010-11

Piero Pizzi Cannella, Rosso, 2010-11

Sì, perché per stessa ammissione dell’artista Piero Pizzi Cannella (Roma, 1955), il progetto che oggi si vede realizzato, oltre a rappresentare un vero inedito essendo il primo incontro fra l’artista romano e la materia ceramica, ha presupposto tre anni di lavoro con la bottega Gatti di Faenza ma forse ben prima, come argomenta Casali in catalogo, già tra fine anni’80 e inizio ’90 c’era in lui “in nuce” un desiderio ceramico, allora in forma di di-segno evanescente di vasi sullo sfondo di carte e tavole, “sagome che oggi hanno acquisito la loro forma, una loro effettiva tridimensionalità”[1].

Mostra nitida dunque, netta, che arriva al termine di tanto lavoro e ne offre i frutti in termini sia di mero godimento delle opere in sé, una ad una, e sono circa settanta pezzi inclusi dipinti e disegni, sia lezione di chiarezza in quanto ad organizzazione spaziale delle stesse, numerose eppure in grado di respirare singolarmente pur essendo in dialogo continuo fra loro.

Piero Pizzi Cannella, Ombra cinese, 2003

Piero Pizzi Cannella, Ombra cinese, 2003 (non in mostra)

“Ogni opera un tempo, ogni ciclo un tempo di diverso respiro ma che a sua volta non fa cronologia, bensì densità psicologica. Ogni opera, ogni ciclo, umori e frammenti che morenicamente si riportano ai successivi, in una sorta d’ininterrotto e incoercibile dialogo interno che si fa alla fine vita tutta di pittore”[2].

Attenzione però: non che le carte appese alle pareti siano studi preparatori o una sorta di canovaccio dimostrativo. Al contrario, sono mondi compiuti, spesso di grandi dimensioni, in cui si rinnova l’alfabeto segnico tipico dell’artista “cattedrali, ombre cinesi, lucertole, bagni turchi, conchiglie, ferri battuti, gioielli e ventagli, mappe, vestiti” che “in un discorso unitario di racconto”[3] si ritrovano anche sulle ceramiche, forme sulla forma dei vasi, oggetti dalla doppia valenza poetica nell’edificium lirico dell’artista.

Piero Pizzi Cannella, Particolare da camera, 2009-10

Piero Pizzi Cannella, Particolare da camera, 2009-10

E verrebbe da domandarsi cosa in effetti contengano quei recipienti, aria, buio, il mistero di Pandora o dei fantasmi che si inseguono avviluppandone la superficie o quale altro mistero, tema che da sempre intriga questo maestro con la capacità che gli è propria di evocarlo in velature, trasparenze di nero, colpi di delicatissima violenza di blu, bianchi, rossi improvvisi e sabbia (il colore della terracotta, della carta invecchiata, bruciata dal tempo, e dei deserti, i labirinti più vasti secondo Borges), cromie incantate anch’esse grazie al tipico “acceso cupo cromatismo”[4], altra firma dell’artista: sono forme soffiate di mistero, le cui radici all’inizio della storia di quest’uomo (e, a mio avviso, al suo vertice) restano nella produzione su carta per la fragilità, la povertà stessa di questo supporto, una delle magie più alte che l’uomo sia riuscito a inventare.

Piero Pizzi Cannella, I vasi dei pesci dell'isola, 2009

Piero Pizzi Cannella, I vasi dei pesci dell’isola, 2009 (non in mostra)

Ecco comparire, nascondersi e dissolversi da oggetto ad aggetto tutto il mondo poetico di Pizzi Cannella, come le costellazioni che sono lì da sempre ma diventano vere solo di notte, mentre i piatti prendono il posto delle fasi lunari o meglio è la luna a scendere per regalarci la sua ritirata affilata in forma di oblò ceramici: noi stupiamo e da lontano altri occhi, quelli che con iconica semplicità compongono l’autoritratto dell’artista, ci guardano: sono cento, forse mille e più, quelli del mito o dell’anima che li moltiplica come specchi franti di un caleidoscopio.

Ci guardano, sì, ma ci guidano anche: sono gli stessi occhi apotropaici delle imbarcazioni antiche, l’occhio sulla nave di Ulisse, su quella degli Argonauti, uomini spinti dall’ignoto verso l’ignoto, verso le isole impossibili delle mappe dell’artista, che assume l’Oriente come luogo del lontano, ancora una volta del mistero irraggiungibile, insvelabile, nonostante i tratteggi di altre opere, quasi indicazioni direzionali precise ma verso mete che non arriveranno mai, poiché come ogni viaggiatore sa il punto è sempre nel viaggio, è il viaggio.

Piero Pizzi Cannella, Mappa del mondo, Gli approdi, 2009-10

Piero Pizzi Cannella, Mappa del mondo, Gli approdi, 2009-10

E in una di queste carte la mappa diventa scacchiera, anch’essa scomparente, approdo-non approdo nella mente di un autore di opere che sanno di luce in quanto di luce si nutrono, la bevono, la cercano, la metabolizzano in intensità.

Museo Internazionale della Ceramica – Faenza


[1] Claudia Casali, La fabula picta di Pizzi Cannella, pag.10,  in Pizzi Cannella – Ceramiche 2012, Pistoia 2013.

[2] Flaminio Gualdoni, Pizzi Cannella. Campi di forme, in Pizzi Cannella. Almanacco 3, catalogo Galleria Carlina, Torino 2011.

[3] Claudia Casali, op.cit., pag. 13, 2013.

[4] Claudia Casali, op.cit., pag. 9, 2013.

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