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Archive for luglio 2012

Premessa: il testo seguente, che ho scritto e pubblicato per Mosaïque Magazine n.4 (giugno 2012) sull’opera di Pascale Beauchamps e CaCO3, riguarda l’esposizione Histoires naturelles attualmente in corso presso Paray-le-Monial (7 luglio – 9 settembre), a cura dell’associazione M comme Mosaïque.

Pascale Beauchamps

Anche quanto c’è di più innaturale è natura. J.W.Goethe

La forma a “X” della figura retorica detta chiasmo può essere utile per capire il processo creativo di due artisti come Pascale Beauchamps e CaCO3, diversi benché accomunati da una scoperta realizzata in tempi e modalità differenti[1]: rendere possibile una contraddizione, ovvero il moto attraverso la pietra musiva, grazie alla disposizione data alle rispettive interpretazioni della materia. Tutto, infine, si completa e chiarisce attraverso la luce, desiderio e sostanza delle loro opere, capace di far “intuire come ogni cosa si muova nel grande spazio infinito”[2].

Pascale Beauchamps parte dalla natura del luogo in cui vive, la Bretagna, per cercare pietre di fiume che l’artista raccoglie e cataloga secondo le dimensioni e tre cromie prevalenti: una scura, grigio-nera, una più chiara tendente al beige e una bianca. Il suo compito non è intervenire sugli elementi singoli, ciò che il tempo naturale ha compiuto sino alla perfezione, ma è ripensare quei ciottoli lisci su superfici di cemento ora circolari, ora oblunghe come totem o moderni menhir (guarda caso parola d’etimo bretone che significa “pietra lunga”), testimonianze preistoriche di cui è ricca la regione dove lavora.

Pascale Beauchamps

Dunque questa ricerca ha molto a che vedere col rito e col silenzio: la raccolta all’aria aperta e la selezione successiva delle “ossa di madre terra” che Deucalione e Pirra si gettarono dietro le spalle per rigenerare l’umanità, è indicativa dell’influenza potente del territorio sulla mente dell’artista e, viceversa, di come la sua creatività abbia “addomesticato simbolicamente il tempo e lo spazio”[3], anzi, la materia naturale connettendosi alle radici formali, ovvero astratte, dell’uomo primordiale in componimenti non a caso spiraliformi o dai ritmi centripeti o centrifughi (archetipi di ogni labirinto), come nei gorghi dei suoi maelström rocciosi e vitrei, oppure nelle sequenze che ricordano spine dorsali e gusci di animali preistorici, sezioni stratificate di alberi fossili e rocce sedimentarie, memorie naturali in grado di suggestionare e attivare la capacità imitativa dell’uomo per riproporle metabolizzate e riordinate, peraltro così producendo quell’“insolito nella forma” di cui parla Leroi-Gourhan[4].

Sono opere che rimandano alla sfera del sacro come erano le cose della natura nella prima percezione umana e ieratica è spesso la loro collocazione (anche negli accumuli in interno dei parallelepipedi avvicinati e attraversati da un continuumdi linee oblique di sassi bianchi, a rafforzare unità e insieme dei piccoli e grandi monoliti), o il loro isolamento apparente in installazioni esterne perfettamente in simbiosi con l’ambiente naturale circostante, d’acqua terra e flora, talché pare siano lì da sempre, parte integrante del territorio, sebbene, in definitiva, cose pensate e realizzate dall’artificio umano.

Pascale Beauchamps

“In effetti: a un certo punto l’oggetto creato dall’uomo diventa analogo a quello che potremo definire «oggetto creato dalla natura»; ossia elemento naturale sorto spontaneamente ma che assume all’occhio dello spettatore un carattere «oggettuale»”[5].

In realtà “le cose naturali sono soltanto immediate e una sola volta, ma l’uomo come spirito si raddoppia, in quanto dapprima è come cosa naturale, ma poi del pari è tanto per sé”[6]: dunque l’uomo è sì parte della natura, ma anche capace di compiere la propria natura, a se stante e unica nel cosmo naturale[7].

Si potrebbero fare analogie col mondo animale, pensando alle architetture dei nidi d’uccello, alle geometrie degli alveari o a quelle delle tele di ragno, ma sono tutte costruzioni funzionali a differenza delle astrazioni più o meno concretizzabili della mente umana.

E questa è la premessa del lavoro di CaCo3: l’inclinazione tridimensionale, memoria bizantina, data al vermiculatum, l’unità base delle sue opere, è dovuta ad esperienze e intuizioni di laboratorio[8], come in atelier vengono preparate le singole tessere necessarie a dare forma all’idea, anzi al progetto precedentemente definito.

CaCO3

Uno dei percorsi creativi di questo artista consiste nel realizzare strutture organiche attraverso l’inorganico della pietra, i cosiddetti Organismi, esseri inventati ma del tutto compatibili con la realtà: infatti CaCO3 si diverte a documentare[9] la loro storia mostrandoli già presenti in alcuni asarotos oikos della classicità, per poi ritrovarli in disegni rinascimentali (il rimando tanto alla curiosità meccanica di Leonardo, quanto alla classificazione del Teatro della Natura di Ulisse Aldrovandi è obbligato, e la parola teatro sembra più che mai opportuna in questa sede, tanto che senza dubbio avrebbero trovato collocazione nella Wunderkammer praghese di Rodolfo II), oltre che in immagini, sempre su carta, degne di un naturalista del XVIII secolo, sino ai frottages[10]e alle rare fotografie d’età moderna, periodo degli ultimi avvistamenti di questi esseri poi ritenuti estinti.

CaCO3 (intero)

Forse però, non tutto è frutto di immaginazione: poiché la realtà è madre di ogni fantasia, recentemente sono state ritrovate e pubblicate le lettere di Groes Bergsoluji, accademico e collaboratore di Linneo. In una missiva egli chiede aiuto all’amico (sfortunatamente non si ha notizia dell’eventuale risposta), avendo trovato alcuni esseri che non sa nominare né classificare data l’ambiguità della loro natura, incredibilmente simile a quella degli Organismi di CaCO3. Così li descrive: “…di forme differenti, sono creature acquatiche, di zona salmastra e paludosa, di grandezza variabile da un pugno umano fino a due mani aperte, paiono silenti e immobili, come la roccia di cui sembrano composti gli aculei della loro superficie, ma possiedono facoltà di moto. Si direbbero minerali e animali insieme, non so se aggressivi…”[11].

Questi stessi Organismi in calcare sono oggi posti da CaCO3 sotto teche museali per completare il gioco di rappresentazione: alcuni perfettamente conservati, altri solo in parte (quasi un “non finito”), come si conviene a ritrovamenti fossili veri e propri, che l’artista scienziato ha ricomposto e da cui probabilmente ha prelevato campioni di tessuto da analizzare[12]. Ad essi si affiancano anche altre opere formalmente connesse col tema dello studio naturale, come le Posidonie, la cui varietà avrebbe fatto la gioia di D’Arcy Thompson[13], o i piccoli mosaici dal nome assai evocativo, Efflorescenze[14].

Dunque, il lavoro di CaCO3 è un prodotto intellettuale e punto di partenza di questo autore è, come si è visto, l’artificio, all’opposto della Beauchamps, di cui l’artefatto è l’approdo finale di un cammino avente origine nella natura, a sua volta punto d’arrivo di CaCo3: un vero e proprio chiasmo.

In questo incrocio reciproco, verrebbe da chiedere cosa è e cosa resta natura e cosa artificio: a quanto pare i confini fra questi due ambiti sono destinati a risolversi proprio nella figura dell’essere umano, l’artefice, essendo egli sintesi attiva di entrambi, capace di realizzare ciò che l’intuizione di Goethe posta ad apertura di questa pagina aveva da subito rivelato.

CaCO3 (particolare)


[1] Dalla metà degli anni ’90, la scultrice Pascale Beauchamps adotta il linguaggio attuale, definito musivo da Verdiano Marzi e Giovanna Galli, mentre la costituzione di CaCO3 è del 2006: i tre componenti, Âniko Ferreira da Silva, Giuseppe Donnaloia e Pavlos Mavromatidis, provengono da un’esperienza scientifica comune, maturata presso la Scuola per il Restauro del Mosaico di Ravenna.

[2] Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, II, 121-122. Questi versi si riferiscono al bellissimo passo in cui un raggio di sole in una stanza buia illumina migliaia di leggerissimi corpuscoli di polvere sospesi nell’aria, mentre si scontrano fra loro (II, 114-120).

[3] Cfr. André Leroi-Gourhan, Le geste et la parole. La mémoire et les rythmes, Paris 1965.

[4] “L’insolito nella forma, potente molla dell’interesse figurativo, esiste solo a partire dal momento in cui il soggetto confronta una immagine organizzata del proprio universo di relazione con gli oggetti che entrano nel suo campo di percezione. Sono insoliti al massimo gli oggetti che non appartengono direttamente al mondo vivente, ma che ne mostrano le proprietà o ne sono il riflesso delle proprietà. Il mondo vivente degli animali, delle piante, degli astri e del fuoco, irrigidito nella pietra, è ancora per l’uomo di oggi una delle origini un po’ oscure del suo interesse per la paleontologia, la preistoria o la geologia. Le concrezioni, i cristalli che emanano la luce, raggiungono direttamente il punto più profondo dell’uomo, sono, nella natura, come parole o pensieri, simboli di forma o di movimento. Ciò che c’è di misterioso e anche di inquietante da scoprire nella natura, una specie di riflesso immobile del pensiero, è la molla dell’insolito.”, André Leroi-Gourhan, Le geste et la parole. La mémoire et les rythmes, Paris 1965.

[5] Gillo Dorfles, Artificio e natura, Torino 1968. E si potrebbe anche citare il paradosso di Oscar Wilde tanto amato da Picasso, secondo il quale è la natura ad imitare l’arte.

[6] Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni di estetica. Corso del 1823, Bari 2007.

[7] Cfr. Leszek Kolakowski: “L’uomo con la sua autocoscienza costituisce, in seno alla natura, un altro mondo, un’altra natura del tutto eterogenea rispetto alla sua sorgente”, Traktat über die Sterblichkeit der Vernunft, München 1967, in Gillo Dorfles, Artificio e natura, Torino 1968.

[8] L’approccio scientifico è presente sin dalla scelta del nome del gruppo: CaCO3 è la formula del carbonato di calcio e contiene, del tutto casualmente, lo stesso numero dei suoi tre componenti.

[9] I tre cardini della scienza indicati di recente dal fisico-genetista Edoardo Boncinelli sono la materia, l’energia e, appunto, l’informazione, ovvero gli elementi e i progressi documentabili e sempre perfettibili dello studioso, cfr. E. Boncinelli, La scienza non ha bisogno di Dio, Milano 2012.

[10] Cfr. l’Histoire naturelle di Max Ernst del 1926.

[11] La descrizione è del tutto inventata e l’illustre Groes Bergsoluji non è mai esistito, essendo anagramma di Jorge Luis Borges, autore con Margarita Guerrero del noto Manuale di zoologia fantastica (1957), in cui non sfigurerebbero questi Organismi. Ho voluto partecipare anch’io al gioco della simulazione, rendendo un piccolo omaggio al grande argentino: spero che il lettore mi perdoni. Sulla stessa linea di invenzione divertita, condotta in maniera rigorosa, segnalo La botanica parallela (1976), piccolo gioiello scritto e illustrato da Leo Lionni.

[12] Tutto questa messa in scena sembra coerente, anche se trattando di “oggetti organici-inorganici” impossibili e inventati, nasconde uno straniamento percettivo di cui per primi si occuparono, benché in ambito letterario, i formalisti russi, Viktor Šklovskij anzitutto. Del resto, anche nel Wonderland di Carroll tutto funziona, ma tutto è assurdo, un intero mondo straniato.

[13] Cfr. il capitolo “La forma delle cellule”, in particolare il paragrafo su “Cilindri e onduloidi” in D’Arcy Wentworth Thompson, Crescita e forma, 1917 (Torino 1969). Già Galileo affermava che “il libro della natura è scritto coi caratteri della geometria.”

[14] Celebre l’invito di Leonardo da Vinci a fermarsi e guardare “nelle macchie de’ muri, o nella cenere del fuoco, o nuvoli, o fanghi, od altri simili luoghi, ne’ quali, se ben saranno da te considerati, tu troverai invenzioni mirabilissime”, Trattato della pittura, II, 63.

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Takako Hirai, Istinto, 2011 (foto D. Torcellini)

Takako Hirai (Kumamoto, Giappone, 1975): nel tuo Paese d’origine hai studiato e ti sei laureata nel 1999 in pittura presso la Hiroshima City University. Poi hai scelto l’Italia, Ravenna e il mosaico in particolare: cosa ti ha spinto verso questa direzione artistica?

Ho incontrato il mosaico nella gita scolastica dell’università, a Roma, nel 1997. Semplicemente mi è piaciuto.

Quando mi stavo per laureare ho pensato che non avrei potuto vivere solo facendo la pittrice, volevo imparare un mestiere… e ho scelto il mosaico .Volevo diventare una mosaicista artigiana e rimanere artista in campo pittorico. Per imparare il mosaico, ricercando su internet, si va a Ravenna ed effettivamente sono arrivata qua.

Perché il mosaico? Penso che sia per la sua materialità. Anzitutto è stata l’impressione a coinvolgermi e poi il tatto. Ho provato una specie di “simpatia” molto naturale.

Per la verità, tante volte ho pensato di aver sbagliato e ogni tanto, ancora, mi fa sorridere il motivo della mia scelta. Comunque, ora sono abbastanza sicura di non aver sbagliato.

Takako Hirai, In silenzio, 2010

Hai partecipato a numerose mostre in ambito nazionale e internazionale, non ultimo il premio GAEM 2011, svoltosi a Ravenna lo scorso autunno.

Al centro della tua ricerca è il rapporto, anzi la simbiosi fra essere umano e natura: grazie al tuo uso sapiente di micromosaico e gradazioni cromatiche (va da sé, molto pittoriche), le silhouettes umane si nascondono fra rami d’albero ed erbe alte, sino a diventare parte della flora stessa: potresti parlare di come è nata questa tua visione e identificazione col mondo vegetale?

Nelle mie opere ci sono sempre i miei pensieri (sentimenti). Scelgo un luogo dove vorrei essere nel momento in cui ho un pensiero (come su un albero o tra l’erba per scappare o ammirare, etc.).

Essere in un posto dove c’è la flora mi fa sentire protetta (fino ad essere “invidiosa” dell’essenza del mondo vegetale).

Takako Hirai, In silenzio (particolare), 2010

Perché due immagini sovrapposte? È un dilemma che ovviamente deriva dal mio carattere, dai pensieri che vorrei nascondere, ad esempio. La verità è che vorrei che questi miei pensieri venissero scoperti (letti)… sono come indecisa, nel profondo.

Per quanto riguarda la tecnica, l’ho trovata grazie all’esperienza accumulata nei lavori pratici in campo musivo. Ma l’idea di esprimermi in questo modo (nascondere un’altra figura ovvero trasformare il mio pensiero in una figura.), l’avevo già in pittura, anche se non ero mai riuscita a realizzarla perché il materiale, anche tecnicamente, non mi sembrava adatto alla piena espressione del mio concetto.

Takako Hirai, Pensiero, 2011 (foto D. Torcellini)

Per anni hai collaborato con lo studio Koko Mosaico di Luca Barberini e Arianna Gallo, mentre attualmente lavori presso altri laboratori musivi: come vedi il tuo futuro, qui in Italia o all’estero? E, artisticamente, continuerai solo col mosaico o, ogni tanto, tornerai alla pittura?

Mi piacerebbe restare in Italia, ma le mie opere possono andare ovunque!

Il mosaico e la pittura: mi servono entrambi. Le differenze di materiali e tecniche mi offrono diverse possibilità espressive, oltre a piacermi ogni ambito, anche al tatto.

Info e contatti: takakoirahi@gmail.com

Takako Hirai, Cercando una casa, 2005

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Wisława Szymborska (1923-2012)

 

Preferisco il ridicolo di scrivere poesie/ al ridicolo di non scriverne. W. Szymborska

Ho incontrato Wisława per la prima volta nel 1997, da ragazzo, prima che diventasse una moda radiotelevisiva, attraverso un libretto della Mondadori della serie benemerita I miti poesia: ogni due settimane aspettavo con ansia e gioia ogni pubblicazione nuova che per 4.900 lire mi faceva scoprire tanti poeti stranieri e italiani a me ignoti o riscoprire superclassici come Leopardi finalmente liberati dalle zavorre scolastico-ministeriali e splendenti solo di bellezza propria.

Sulla copertina era riportato l’anno del suo Nobel, il 1996, forse per invogliare i più diffidenti davanti a quello sconosciuto (allora) nome polacco. Ma come ho detto, io ormai acquistavo sulla fiducia, anche perché spesso i Nobel sono stati assegnati ad autori di secondo ordine trascurando giganti come Borges o Proust.

Il “tu” con cui in apertura mi sono rivolto alla poetessa recentemente scomparsa non vuole essere una mancanza di rispetto: intanto ogni scrittore che pubblica dà in qualche modo del tu al suo lettore. Inoltre sempre sul quel libretto mondadoriano che radunava venticinque poesie tratte da due delle sue più belle raccolte, Gente sul ponte (1986) e La fine e l’inizio (1993), avevo annotato come fosse la sua stessa lingua, così diretta, colloquiale, arditamente semplice (come in Billy Collins, Ghiannis Ritsos, Sandro Penna, e invece, come paiono irrimediabilmente invecchiati oggi i ghirigori di tanta neoavanguardia anni’60), a darmene quasi il consenso.

Con lei mi sentivo a casa, come da una vecchia, molto saggia, zia. Anni dopo, quando effettivamente l’ho incontrata di persona a Bologna, il 27 marzo 2009, in occasione di un’onorificenza dell’Alma Mater (una laurea honoris causa? Non ricordo più), ho subito pensato che si presentava come me l’aspettavo, come i suoi versi me l’avevano fatta immaginare. Corrispondeva.

Naturalmente in rete erano disponibili centinaia di foto, ma una cosa è vedere una riproduzione (di qualsivoglia oggetto, edificio, paesaggio o persona), altra è farne esperienza diretta: ed eccola lì, la Szymborska, minuta e grandissima, vestita di chiaro, curata e asciutta con le rughe che sono il racconto, i segni dell’aratro-vita sul terreno di un volto, dolcissima e dura ad un tempo, come la sua lingua a me incomprensibile, fortunatamente tradotta con cura eccellente, con amore direi, dal compianto Pietro Marchesani (1942-2011).

Franco Loi in una bella intervista (Il canto della vita a cura di Marco Manzoni, in Da bambino il cielo, Milano 2010) cita la convinzione di Petrarca sul fatto che la poesia, quando è vera poesia, è sacra come la Scrittura. Anche per Ungaretti la poesia era preghiera e per Patmore l’unica differenza fra un mistico e un poeta stava nel fatto che il primo tace ciò che il secondo dice.

Continua Loi dicendo che la radice indoeuropea della parola sacro vuol dire “distanza”: dunque chi si occupa del sacro tenta di colmare distanze, come il pontifex latino, il pontefice, colui che, stando alla lettera, costruisce ponti (fra noi e il divino). E cosa fa il poeta se non cercare di avvicinarsi all’indicibile, alla verità delle verità insomma? Certo più in là non si può andare: persino Dante di fronte a Dio sospende la parola: “A l’alta fantasia qui mancò possa” (Paradiso, XXXIII, 142).

Nei versi della Szymborska c’è tanta verità ma detta nel più semplice dei modi (questo spiega il suo meritatissimo successo di vendite, oltre al desiderio di poesia più diffuso di quanto non si pensi: ma più che l’opera omnia pubblicata da Adelphi, suggerisco di farsi tentare anche dalle singole perle azzurre Scheiwiller) e con la consapevolezza, da profonda ammiratrice del Qoelet, che “l’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante «non so». (…) Anche il poeta, se è un vero poeta, deve ripetere di continuo a se stesso «non so». Con ogni sua opera cerca di dare una risposta, ma non appena ha finito di scrivere già lo invade il dubbio e comincia a rendersi conto che si tratta di una risposta provvisoria e del tutto insufficiente” (da Il poeta e il mondo, discorso per il Premio Nobel, 1996). Non a caso c’è in lei tanta ironia, salti d’arguzia dove non li aspetti e dove sono in realtà necessari, sapientemente orditi dalla maga poetessa per incantarci, per farci allungare il passo e colmare la distanza fra ciò che neanche sospettavamo fosse già dentro di noi: Sulla morte senza esagerare, Vista con granello di sabbia, Nulla è in regalo, Amore a prima vista, Possibilità, Qualche parola sull’anima, Elenco e decine di altre: leggete, stupite, riconoscetevi.

A proposito, vi lascio con La cipolla, poesia e sorriso con cui mi piaceva chiudere i reading tanti anni fa (posso dire nel secolo scorso!), mosso dalla pura voglia di far sentire a degli sconosciuti ciò che ritenevo importante, perché mi aveva fatto capire “che esiste la vita e l’individuo,/ che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuivi/ con un tuo verso” (Walt Whitman).

Quasi scordavo: quella volta a Bologna sono riuscito a farmi firmare un suo libro e, sebbene di persona avrei preferito darle del lei, mi è scappato in inglese “thank you, for my life”. Non so se abbia capito o forse solo per educazione, ma in una frazione di secondo m’è parso reclinasse leggermente il collo, quasi stupita negli occhi, per allungare gli angoli della bocca in un sottile sorriso.

 

La cipolla 

La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore. 

In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d’inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.

Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.

La cipolla, d’accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezione.
E a noi resta negata

l’idiozia della perfezione. 

Wisława Szymborska, da Grande numero (1976), in Vista con granello di sabbia – Poesie 1957-1993 (Milano 1998).


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Perché l’opera lirica è diventata noiosa dopo essere stato uno dei generi più pop della storia della musica? D’accordo, sono cambiate un po’ di cose nell’ultimo secolo, dal cinema alla televisione al web ai gusti musicali, ovviamente. Ma cosa è successo alla lirica, in Italia specialmente?

Risposta concisa ed efficace a un tema complesso: nel nostro Paese si fa dell’“archeolirica”, ovvero un tipo di spettacolo ancora legato a convenzioni ottocentesche che non hanno nulla da dire all’uomo (al ragazzo!) di oggi e che, volendo rispettare una presunta tradizione mummificata tradiscono proprio ciò che pretenderebbero difendere, la poesia dinamica (visiva e musicale) dell’opera stessa.

In fondo si tratta di traduzioni: avrebbe senso oggi tradurre Goethe e Baudelaire con la lingua di Foscolo o Carducci (per carità!) solo perché loro contemporanei?

E così, un “fortissimo” dei tempi di Rossini e Mozart ha il medesimo significato ancora oggi? È davvero un peccato mortale attualizzarlo, realizzando o meglio avvicinandosi al volere effettivo dell’autore?

Che male c’è a rileggere in vesti moderne quell’autentico schiaffo al perbenismo borghese che è la Traviata? Appunto attualissima e scandalosamente in abiti contemporanei allora, quando fu creata. E il Rigoletto, non si apre forse con un’orgia? Ebbene sì, avete capito bene, “lo dice il libretto”, scrive giustamente Mattioli. Altro che i castigati e ingombranti paludamenti rinascimentali: più Aretino e meno Monsignor Della Casa, se proprio deve essere…

E la Butterfly non si può fare rinunciando agli stereotipi delle giapponeserie liberty? E la meravigliosa opera barocca può essere definitivamente spiumata da costumi di penne, ali, Pizzi e merletti?

Sì, tutto è possibile e molto è già stato fatto, specie da registi e scenografi esteri, gente che pensa e non si contenta del mestiere di amanuense cui moltissimi protagonisti nostrani ci hanno abituato (e ammorbato: e ancora durano). Tutto questo e molto di più è ben testimoniato, con nomi e cognomi, da Alberto Mattioli, “operoinomane” come egli si definisce è ben più che un esperto (peraltro critico musicale e corrispondente da Parigi per La Stampa e collaboratore di numerose riviste specializzate): la sua è una ragione di vita.

Le 1100 opere da lui viste e catalogate (con tanto di numero aggiornato al 31.12.2011) nella sua carriera di appassionato e di “tossico” come tutti i monomaniaci (ma “l’opera fa meno della droga vera”, portafogli a parte, s’intende) sono la materia di questo divertentissimo e coltissimo racconto che è Anche stasera – Come l’opera ti cambia la vita (Mondadori Strade blu, Milano 2012), un testo da leggere e rileggere divertendosi e imparando molto (in fondo al libro si trova anche un bignamino lirico, utile perché sa incuriosire ulteriormente, preceduto dai seri e giocosi cento motivi per appassionarsi al genere), come sempre quando una passione, dunque una verità, sostiene il tutto. E la passione si sa è faziosa: infatti il nostro, tanto per fare un esempio, non sopporta Muti e adora Abbado (padre), la sua sensibilità, sottile e robusta a un tempo, artistica e umana. Specchio, viene da dire, della sua figura, esile e alta e in grado di sorridere, di far sorridere (prendete lo storico, all-star, Viaggio a Reims di Rossini da lui diretto nel 1984), come di commuovere.

Sia chiaro: questo non è testo sull’opera per tecnici: al contrario, troverete sì le giuste informazioni e qualche aneddoto storico, ma soprattutto la narrazione briosa delle avventure dell’autore (sin dove può spingerci una passione? Ovunque e a ogni costo!) fra appuntamenti al buio all’Opera di Amsterdam, vacanze intelligenti (e leggermente massacranti per un neofita), le prime alla Scala “demutizzata” (post 2004) con immancabili mostri botulinizzati e le follie vere, severissime, da crucchi degni di Wagneropoli, ovvero Bayreuth.

Fra le pagine più esilaranti segnalo la casistica dei “rompiopera”, il catalogo è questo: “la scartocciatrice folle, la ravanatrice impazzita, il telefonista compulsivo, la librettista divulgatrice, la tisica incurabile, il loggionista arrabbiato, la divina carampana, la tintinnatrice percussiva, la palchettista irriducibile” e, gran finale arbasiniano, “la melochecca adorante”.

Infine, si tenga presente che come non esiste il teatro dall’acustica perfetta, esistono invece teatri più adatti di altri a certe musiche, così non esiste l’esecuzione d’opera perfetta: c’è sempre qualche sbavatura, ora è un cantante, ora una scena, ora un orchestrale o il direttore stesso. Per fortuna “a noi resta negata/ l’idiozia della perfezione” diceva l’ottima Szymborska, meglio lasciarla alle cipolle o agli dei. Tuttavia è possibile che ci siano elementi singoli di rara esattezza, tali da concretizzare un termine ormai desueto: il sublime. Mi riferisco allo Zauberflöte diretto da Solti con i Wiener Philharmoniker (Decca, 1971): a dire il vero, per quanto buona, ci sono esecuzioni migliori, ma la cantante, Christina Deutekom, è la miglior Regina della Notte mai esistita. La scala e gli acuti della nota aria Der Hölle Rache: come lei nessuno mai. Ascoltate e stupite.

Un’ultima considerazione: noi restiamo ancora, nonostante tutto, “il Paese del melodramma: piaccia o non piaccia”, con “i vizi e le virtù, figure e figuri, tipi e costanti nazionali” che quel “grande antropologo arcitaliano” di Verdi come pochi ha saputo indagare e mostrarci. Lo strepitoso baraccone dell’opera dunque è cosa più che mai viva e ci riguarda, anche in termini di bellezza, di vago (nel senso petrarchesco) incantamento, una volta tanto.

Ps. Dedico questa pagina a mio padre, che in casa, da ragazzino, mi ha introdotto al mondo del bel canto, e a Cristina e Giulia, amiche “operoinomani” che ho avuto la fortuna di conoscere tanti anni fa.

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