La Storia secondo Fernand Braudel si misura e comprende meglio solo osservandone i tempi lunghi, quelli delle mutazioni epocali. Ci sono però anche i tempi brevi, attimi talvolta, fiammate che possono dare accelerate improvvise, benefiche o tragiche, certo anch’esse meglio leggibili nell’arco dei processi più lunghi in cui sono inserite. Se però è difficile per ognuno di noi capire sino in fondo e completamente il proprio tempo in relazione alle cosiddette “lunghe durate” (se faceste notare a un carolingio che la sua età è ancora considerata come parte dei secoli bui, potrebbe legittimamente domandarvi “perché?” e soprattutto “chi ha spento la luce?”), è però possibile assistere al fatto eclatante e capire che lì qualcosa sta cambiando, che qualcosa non sarà più uguale a prima. Tanto è vero che, ad esempio, quando succede io ho perfetta memoria di dov’ero e cosa stavo facendo.
Mi è capitato con l’11 settembre, di ritorno da una mattinata al mare, in Sicilia. E ricordo il colore del cielo e i volti impietriti degli amici con cui guardavamo le immagini televisive.
Quasi dieci anni prima, ero un ragazzino, in un pomeriggio del maggio 1992 e poi del luglio dello stesso anno. Si era in cortile a giocare a calcio, l’odore dell’erba tagliata da poco, verso il 20 del mese. La prima volta, al rientro, vidi i miei scuri in volto a seguire il telegiornale, la seconda volta mi richiamarono in casa e lo stesso fecero anche le madri degli altri miei amici. Bisognava fermarsi. Assistere e capire che stava accadendo qualcosa di terribile a cui opporsi in qualche modo. Capaci e Via d’Amelio. Falcone e Borsellino.
E voi dove eravate, cosa stavate facendo in quei (o altri) momenti della Storia?
“Si può sorridere all’idea di un criminale, dal volto duro come la pietra, già macchiatosi di numerosi delitti, che prende in mano un’immagine sacra, giura solennemente su di essa di difendere i deboli e di non desiderare la donna altrui. Si può sorriderne, come di un cerimoniale arcaico, o considerarla una vera e propria presa in giro. Si tratta invece di un fatto estremamente serio, che impegna quell’individuo per tutta la vita. Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi. (…)
Credo che Cosa Nostra sia coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana, a cominciare dallo sbarco alleato in Sicilia durante la seconda guerra mondiale e dalla nomina di sindaci mafiosi dopo la Liberazione. Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi di politici non si siano alleati a Cosa Nostra – per un’evidente convergenza di interessi – nel tentativo di condizionare la nostra democrazia, ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi.
Parlando di mafia con uomini politici siciliani, mi sono più volte meravigliato della loro ignoranza in materia. Alcuni forse erano in malafede, ma in ogni caso nessuno aveva ben chiaro che certe dichiarazioni apparentemente innocue, certi comportamenti, che nel resto d’Italia fanno parte del gioco politico normale, in Sicilia acquistano una valenza specifica. Niente è ritenuto innocente in Sicilia, né far visita al direttore di una banca per chiedere un prestito perfettamente legittimo, né un alterco tra deputati né un contrasto ideologico all’interno di un partito. Accade quindi che alcuni politici a un certo momento si trovino isolati nel loro stesso contesto. Essi allora diventano vulnerabili e si trasformano inconsapevolmente in vittime potenziali. Al di là delle specifiche cause della loro eliminazione, credo sia incontestabile che Mattarella, Reina, La Torre erano rimasti isolati a causa delle battaglie politiche in cui erano impegnati. Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto.
Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno.
In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.”
Giovanni Falcone, da Cose di cosa nostra, in collaborazione con Marcelle Padovani (Milano, 1991)