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Di seguito presento il testo critico in catalogo per la doppia personale di Giuliano Babini e Maurizio Pilò da me curata insieme all’amico Roberto Pagnani presso il Centro Culturale Mercato di Argenta.

Vi aspettiamo all’inaugurazione domani, sabato 16 marzo alle 17.30, per festeggiare insieme agli artisti. Non mancate!

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Muta Natura

di Luca Maggio

“Solo questo esiste: aggregazione e disaggregazione di ciò che fu aggregato.” Empedocle

È tutto nel titolo. Si presentano qui le opere di due artisti diversi, Giuliano Babini e Maurizio Pilò, che interrogano le cose della natura giungendo da poli opposti a far toccare gli archi del loro fare in un cerchio vitale di continuità. Del resto, nel greco antico la medesima parola racchiude un duplice significato, secondo di dove si sposti l’accento: bíos è la vita, biós è l’arco.

Tendendo la corda del pensiero per trapassare “gli margini del mondo”, direbbe Giordano Bruno ne la Cena de le ceneri, i due nostri artefici hanno dato corpo a quadri, sculture musive e installazioni ideate appositamente per lo spazio Centro Culturale Mercato di Argenta, lasciando a noi l’ambiguità di interpretare in lingua italiana o latina questo titolo: Muta Natura.

Si parla dunque di natura. Lo si fa con oggetti d’arte muti, silenziosi per definizione, ma non inerti. Non era forse De Chirico a definire le sue nature morte come vite silenti?

Si parla dunque di natura. Lo si fa con oggetti d’arte che sono in mutazione continua, hanno cambiato la pelle di ciò che in essi viene (rap)presentato e, seguendo un percorso tracciato dagli stessi Babini e Pilò con un elemento installativo da loro realizzato – in cui sono citate le canne palustri tipiche della zona argentana – e disposto fra i due principali ambienti espositivi, si va dai lavori scultoreo-musivi tridimensionali di Babini, posti a terra, alle grandi tele bidimensionali e inedite di Pilò a parete, sebbene per Babini sia previsto anche un tondo pittorico da appendere e per Pilò alcune tecniche miste precedenti da collocare sul pavimento, in un dialogo speculare di reciproca appropriazione dei locali a disposizione.

Giuliano Babini

Maurizio Pilò

Guardando questi manufatti in sé e nel loro vicendevole compensarsi, viene alla mente Lucrezio: “nec manet ulla sui similis res: omnia migrant,/ omnia commutat natura et vertere cogit” – “nulla resta uguale a sé stesso: tutto cambia,/ la natura tutto trasforma e costringe a mutare” (De Rerum Natura, 5, 830-831). Come se tutto ciò che è presente in queste sale provenisse da una medesima fonte invisibile e, materializzandosi nelle proprie varietà formali, avesse raggiunto l’isonomia lucreziana, ovvero l’equilibrio dei contrari che pone alla nostra attenzione le orizzontalità e verticalità così differenti di queste opere, ma originatesi dal libero incontro-scontro-deviazione della caduta o inclinazione o clinamen corpuscolare che tutto genera nella fisica epicurea: il filo d’erba e il pianeta che lo contiene, infiniti altri mondi e le cellule del nostro occhio o quelle delle antenne della formica, ogni materia, ogni energia, la luce, persino i segni di inchiostro, le tessere-lettere che compongono la parola da voi appena letta.

Nel minimo è il massimo e viceversa, Mandelbrot docet, o volendo affacciarsi alla saggezza orientale di Thich Nhat Hanh ne Il cuore della comprensione: “Nel foglio di carta è presente ogni cosa: il tempo, lo spazio, la terra, la pioggia, i minerali del terreno, la luce del sole, la nuvola, il fiume, il calore. Ogni cosa co-esiste in questo foglio. ‘Essere’ è in realtà inter-essere (…). Non potete essere solo in virtù di voi stessi, dovete inter-essere con ogni altra cosa. Questa pagina è, perché tutte le altre cose sono.” La metamorfosi è costante.

Le creature babiniane, da inserirsi nel flusso artistico post-human, sebbene siano anzitutto una galleria animale, giungono a noi come cose altre, geneticamente modificate e tuttora in mutamento, o forse lo siamo noi con la nostra artificialità rispetto a loro: hanno attraversato altre notti, altri sogni, paralleli mondi per raccontarci di Goya e di Bosch, di miti classici antichissimi divenuti contemporanei e tuttavia conservano in ogni parte loro la natura, una natura cui non siamo abituati per pigrizia di immaginazione, il locus da cui provengono. È pelle la loro, è corpo, sono denti ossa corna incistate, è mosaico, è pelle che si volge in mosaico o il contrario, come avviene nei rettili. D’altronde l’ibridazione è nel loro DNA. Hanno letto Ovidio, pregano come Dafne, risalgono da abissi primordiali, costituiscono una memoria nuova e preludono a futuri di nature mutate fra bucrani blu e teschi verde-azteco. E in mezzo a tante mirabilia post-zoologiche appare l’autoritratto dell’artista, pietrificato, su cui si innesta la conchiglia-orecchio, evocante le onde del mare nero-ardesia verso cui è volto il suo sguardo commosso, lontano.

Altre acque permeano i frammenti dipinti di vita nuova di Pilò. La partenza è fotografica: sono accumuli di immagini, “strati di giorni” li definisce l’artista, che si depositano anzitutto nella sua memoria, sui quali il tempo della riflessione silenziosamente agisce. Il primo scatto non raffigura nulla di eclatante, anzi, spesso sono particolari ravvicinati di luoghi soggetti a degrado, inariditi, inquinati. Ecco l’abbandono. Su questa base incollata su supporto di tela o cartone, egli opera la trasformazione con acrilici, pastelli a olio, collage cartacei, scritte, foglie d’oro, cera d’api e quant’altro serva per nascondere il dato iniziale e rivitalizzarlo in acque blu e verdi quasi fluo, in piante e erbe rigogliose, in un ritorno sontuoso alla vita selvatica. Ecco la rinascenza. La sfida che la pietas di Maurizio compie come necessità verso la grande Madre cui tutto dobbiamo. E le acque di cui sono intrisi i suoi lavori, rammentano quelle dantesche del Lete e dell’Eunoè, i due fiumi del Paradiso terrestre provenienti dalla medesima fonte divina e poi divisi, nei quali l’anima si deve immergere per accedere al Paradiso celeste: il primo è l’oblio, serve a dimenticare, a lavarsi dal male compiuto. Il secondo è “la memoria del bene”, la purificazione avvenuta. Il cammino nuovo può attuarsi, come queste opere compiutamente dimostrano.

Maurizio Pilò

Giuliano Babini

Di recente ho appreso la definizione sintetica quanto icastica che il fotografo Enrico Cattaneo dava delle opere d’arte: un oggetto + un’idea. Credo che questa occasione argentana ne sia testimonianza efficace, rivelando l’inedito, ciò che Muta Natura possa e voglia significare.

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