Gurdjieff ha detto: “Voi non siete svegli, siete addormentati”. Lo siamo tutti, senza eccezioni. Noi non possiamo dire: “Io sono sveglio. Lui dorme ma io sono sveglio”. Noi tutti dormiamo. Innanzitutto dobbiamo rendercene conto e poi dobbiamo capire cosa significa essere svegli. Se ti svegli anche per un solo minuto, non potrai più dimenticarlo. Mai. Saprai sempre se stai solo fingendo di essere sveglio o se stai sognando. E questo è la musica per me: essere sveglio e avere la capacità di percepire… percezione e consapevolezza.”
Con queste parole di Keith Jarrett (Allentown, Pennsylavania, 1945) si apre Il mio desiderio feroce (Edizioni Socrates, Roma, 1994), testo fondamentale per capire la poetica di questo genio autentico del piano e della musica contemporanea. Già, quale musica? Classica, jazz? Fusion, smooth jazz? Le sue improvvisazioni, da solo o nell’ormai storico Standards Trio con Gary Peacock e Jack DeJohnette, non sono classificabili: è semplicemente musica. È stato un cosiddetto bambino prodigio, passato poi nella formazione di Miles Davis e arrivato a registrare album di classica (Shostakovich, Mozart e Bach soprattutto, quasi nutrendo un’ossessione per Glenn Gould), oltre a produrre composizioni di bellezza senza pari come The Köln Concert (1975), Spirits (1986) o il recente Testament, coi concerti di Londra e Parigi del 2008, e rivisitazioni altrettanto stupende (The melody at night, with you, 1999), tutte pubblicate dalla prestigiosa EMC Records.
Indimenticabile, per chi lo abbia visto live, il suo rapporto col piano, fisicissimo, il suo rannicchiarsi per poi alzarsi, quasi danzare e cantare le note che dalla testa passano alle dita, chiarendosi al mondo: proprio per non perdere una concentrazione altissima, che gli fa creare al momento il flusso musicale apparso, si è talvolta dovuto scontrare col pubblico più chiassoso e irrispettoso, al contrario apprezzando, anzi avendo necessità di platee silenziose, che respirano all’unisono con lui, permettendogli di emozionarsi e perdersi sulla tastiera, sentendo la loro e la sua musica.
“Suonare è un atto estremo. Voglio trascendere le possibilità fisiche del mio piano, voglio che suoni come una voce umana, come una chitarra, come un uccellino. Per questo amo tanto la musica del vostro Ferruccio Busoni e soprattutto il secondo concerto per pianoforte di Béla Bartók: perché chiedono al piano più di quanto possa fisicamente dare, quando finisci sei sudato come una bestia. Tento sempre di andare oltre. Le note mi arrivano come un vapore sottile, come vapore acqueo. E io cerco di coglierne la forma prima che svaniscano nell’aria.” (Keith Jarrett, dall’intervista al Corriere della Sera del 7 maggio 2009, pg.55, prima del concerto al San Carlo di Napoli).
è proprio così, un fluire di energia pura a volte in armonia, a volte in tumulti, come nella vita.