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Francesco Hayez, Ritratto (postumo) di Gioachino Rossini, 1870, Pinacoteca di Brera, Milano

Francesco Hayez, Ritratto (postumo) di Gioachino Rossini, 1870, Pinacoteca di Brera, Milano

Splendido esemplare di musicista anomalo poiché ormai fuori tempo massimo (o in largo anticipo sui tempi a venire) il vecchio Rossini di metà ‘800, da decenni lontano dalle scene teatrali ed estraneo, anzi ostile al romanticismo imperante, nel buen retiro parigino di Passy comporrà da par suo, “un po’ per celia e un po’ per non morire”, i cosiddetti Péchés de vieillesse, sterminata benché ordinata raccolta di brani pianistici e vocali suddivisi in più album, culminati col capolavoro massimo, la Petite messe solennelle del 1863, in cui l’anziano maestro dimostrava non solo di essere aggiornatissimo sulle ultime tendenze, ma di poterle tranquillamente scavalcare infischiandosene delle beghe fra verdiani, wagneriani e via sfumando, riuscendo altresì ad anticipare le soluzioni timbriche che saranno adottate dallo Stravinskij de Les noces, il folgorante balletto dei primi anni ’20 del XX secolo.

Rossini era convinto che “l’espressione musicale” consistesse “nel ritmo, nel ritmo sta tutta la forza della musica. I suoni non servono all’espressione che come elementi del ritmo”, diceva.

Il ‘900 con tutte le sue nuove famiglie musicali, dalla classica contemporanea al jazz al rock e derivati vari, gli avrebbe dato pienamente ragione.

invenzioni carbonare tetraktis

In questo senso, uno dei lavori italiani più recenti e interessanti anche perché sincretico (e il sincretismo quando l’amalgama è sapiente vince sempre) è il disco pubblicato l’anno scorso da Decca e significativamente titolato “Invenzioni”, parola magica, legata all’etimo della ricerca come scoperta, il primo nato dalla collaborazione (peraltro avviata nel 2008) fra l’ottimo clarinetto di Alessandro Carbonare e il talentuoso ensemble di percussionisti Tetraktis.

Le 29 tracce per 9 autori presenti nel cd segnano una linea temporale che va dal 1910 con le sinuose, a tratti incalzanti, Danze popolari rumene di Bartók, al 2012 di F for Fake (titolo mutuato da Orson Welles per un lavoro “subacqueo” e dai contorni volutamente non afferrabili) di Riccardo Panfili, uno dei tre pezzi presenti ed espressamente dedicati a Tetraktis insieme al Ritual tribale e primordiale di Alessandro Annunziata che apre il disco e al Millennium Bug di Giovanni Sollima (a detta dello stesso autore: “una riflessione su un’ansia che divide equamente virtuale e reale, tecnologia e spiritualità, un’antica e ancestrale apprensione che l’uomo prova nei confronti delle grandi transizioni”), tutti pezzi che permettono al gruppo di esprimere appieno la vasta gamma dei propri colori e possibilità, cosa che del resto emerge anche nei più che brillanti omaggi a Monk e Zappa, oltre che nel minimalismo rivisitato della Music for pieces of Wood di Steve Reich o nei virtuosismi dello strepitoso Carbonare nella celebre Suite Hellénique di Iturralde.

La conclusione dopo tanta sfavillante energia è ancor più sorprendente dal momento che i Tre pezzi per clarinetto di Stravinskij del 1919 non lasciano affatto solo lo strumento per il quale sono stati originariamente composti, avendo i Tetraktis deciso di accompagnarlo con le percussioni che lo stesso Stravinskij aveva previsto per la Sagra della primavera del 1913.

Disco dunque assai colto, con operazioni intellettualmente raffinate, ma al contempo da chiunque ascoltabile, poiché quel tam tam che insieme alle melodie del fiato percorre la sua intera durata è nel cuore, nei muscoli, nelle ossa e nei nervi di ogni essere umano che abbia orecchio per ascoltare e con dita e mani e piedi tempo da battere.

www.carbonare.com

www.tetraktis.org

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Keith Jarrett

“C’è qualcosa che voglio dire fin dall’inizio, perché credo sia il punto centrale della questione. Io non mi sento esattamente un musicista. Quando mi ascolto suonare, ci sono dei momenti in cui realizzo che non si tratta solo di musica. (…)

Gurdjieff ha detto: “Voi non siete svegli, siete addormentati”. Lo siamo tutti, senza eccezioni. Noi non possiamo dire: “Io sono sveglio. Lui dorme ma io sono sveglio”. Noi tutti dormiamo. Innanzitutto dobbiamo rendercene conto e poi dobbiamo capire cosa significa essere svegli. Se ti svegli anche per un solo minuto, non potrai più dimenticarlo. Mai. Saprai sempre se stai solo fingendo di essere sveglio o se stai sognando. E questo è la musica per me: essere sveglio e avere la capacità di percepire… percezione e consapevolezza.”

Con queste parole di Keith Jarrett (Allentown, Pennsylavania, 1945) si apre Il mio desiderio feroce (Edizioni Socrates, Roma, 1994), testo fondamentale per capire la poetica di questo genio autentico del piano e della musica contemporanea. Già, quale musica? Classica, jazz? Fusion, smooth jazz? Le sue improvvisazioni, da solo o nell’ormai storico Standards Trio con Gary Peacock e Jack DeJohnette, non sono classificabili: è semplicemente musica. È stato un cosiddetto bambino prodigio, passato poi nella formazione di Miles Davis e arrivato a registrare album di classica (Shostakovich, Mozart e Bach soprattutto, quasi nutrendo un’ossessione per Glenn Gould), oltre a produrre composizioni di bellezza senza pari come The Köln Concert (1975), Spirits (1986) o il recente Testament, coi concerti di Londra e Parigi del 2008, e rivisitazioni altrettanto stupende (The melody at night, with you, 1999), tutte pubblicate dalla prestigiosa EMC Records.

Keith Jarrett

Indimenticabile, per chi lo abbia visto live, il suo rapporto col piano, fisicissimo, il suo rannicchiarsi per poi alzarsi, quasi danzare e cantare le note che dalla testa passano alle dita, chiarendosi al mondo: proprio per non perdere una concentrazione altissima, che gli fa creare al momento il flusso musicale apparso, si è talvolta dovuto scontrare col pubblico più chiassoso e irrispettoso, al contrario apprezzando, anzi avendo necessità di platee silenziose, che respirano all’unisono con lui, permettendogli di emozionarsi e perdersi sulla tastiera, sentendo la loro e la sua musica.

“Suonare è un atto estremo. Voglio trascendere le possibilità fisiche del mio piano, voglio che suoni come una voce umana, come una chitarra, come un uccellino. Per questo amo tanto la musica del vostro Ferruccio Busoni e soprattutto il secondo concerto per pianoforte di Béla Bartók: perché chiedono al piano più di quanto possa fisicamente dare, quando finisci sei sudato come una bestia. Tento sempre di andare oltre. Le note mi arrivano come un vapore sottile, come vapore acqueo. E io cerco di coglierne la forma prima che svaniscano nell’aria.” (Keith Jarrett, dall’intervista al Corriere della Sera del 7 maggio 2009, pg.55, prima del concerto al San Carlo di Napoli).

Keith Jarrett.it – sito non ufficiale italiano

Keith Jarrett.org – an unofficial web site

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