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Ed ecco il mio testo in catalogo per l’opera di Sara Vasini Tu, in mostra presso il MAR di Ravenna sino al 27 settembre all’interno della collettiva R.A.M. 2015 – Pedagogia dello sguardo. Buona lettura.

Sara Vasini, Tu, 2015

Sara Vasini, Tu, 2015

Tu, Sara Vasini

di Luca Maggio

“No man is an island, entire of itself; every man is a piece of the continent, a part of the main.” John Donne

“e leviga la sua notte, anello dopo anello” Mahmud Darwish

Tu: una serie di ditali da cucito disposti in fila ordinata su una parete. Il metallo luccica con la luce giusta. Dentro ognuno, misteri minuti e sospesi, delicati come “ombre di api sull’erba”[1].

Tu e lui: l’abbraccio finale, il ritrovarsi di Jean e Juliette sull’Atalante di Jean Vigo, poveri e splendenti sul pavimento dell’imbarcazione a sua volta sopra un letto di onde argentate: anime di una stessa anima, direbbe John Donne, e come le aste di un compasso, per quanto lontane, sono sempre unite in una promessa d’eterno ritorno.[2]

Tu e gli altri: dita d’infanzia in gioco che sfiorano forme su vetri appannati in un inverno bergmaniano, mani intrecciate a mani nella sera estiva al frinire di cicale impazzite, vite che s’incrociano, corpi che si mescolano, battute nate e perse, ben spese, con gli amici, l’urlo dell’amico a squarciare la collina fiorita, il muso del cane, andato come Arianna col suo filo, il baccanale sonoro del mercato, l’incanto di nuvole bianche e graffi sugli scogli della costa, successi, delusioni, giorni di sabbia, scarabocchi di cose che non si dimenticano. L’isola che non c’è.

Ed è Wendy a regalare a Peter Pan un ditale da cucito chiamandolo bacio.

Ecco cosa contengono i tanti Tu di Sara Vasini, un centinaio, affinché se ne veda da lontano la processione (come in Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna), senza però attribuire al numero valori particolari. Uno zero zero. Ma tutto ben ritmato, a ricordare nella ripetizione certe avventure fondanti il minimalismo musicale coi loro suoni elegantemente ossessivi, reiterati con variazioni e aggiunte e accumulazioni quasi nascoste dal fluire delle note, come gli undici accordi che sostengono la struttura di Music for 18 musicians di Steve Reich (1976) e ancor più i cinquantatré  moduli di In C di Terry Riley (1964).

Questi piccoli nidi metallici, nati per difendere le dita dal dolore dell’ago, come le basiliche bizantine in semplici e spogli mattoni esterni celano e proteggono i bagliori musivi interni, celano anch’essi e proteggono un mosaico di scaglie di materia povera come conchiglie e sassolini, oltre a cenni di turchese, ambra, corallo, tutti danzanti in moto circolare, dunque organico e vivificante, attorno al nucleo prezioso in tessera d’oro che è l’altro, il Tu cui si rivolge l’artista e che coinvolge chiunque guardi queste sedi simboliche dell’incontro, avendo saturato il proprio vuoto con frammenti densi ed essendo ormai divenuti altro dal proprio uso quotidiano, senza possibilità di ritorno, in un processo che parte dai ready-made duchampiani e passa per gli innesti di oggetti e neon di Merz[3] sino ai giorni nostri.

La tecnica con cui Sara ha costruito le sue microarchitetture non le è nuova, avendola già sperimentata nei lavori di You just sit there wishing you still make love (2012-13), ma lì, al centro, era la stilizzazione di una sedia, idea dell’attesa, qui è l’oro, con la sua luce, il tesoro che è il desiderio dell’altro da sé da accogliere al proprio centro. Se si è privi dell’altro, non può accadere mutazione, né sfida, né crescita, né vita. L’incontro è il cuore che cambia e genera. L’uno monolitico respinge. Non è esperibile. È invece vitale interpretare la realtà dell’altro, dandole senso attraverso la propria per uscirne noi stessi rinnovati, imparando a conoscere il valore delle differenze, in quanto portatrici dell’“ineludibile enigma”[4] dell’altro che rende a sua volta altro il nostro sé. Per questo è necessario mettersi in gioco senza risposte predefinite, facendo interagire anche le emozioni e i sentimenti di ciascuno (affrontando il labirinto stesso della memoria da punti di vista differenti), quali parti integranti nella costruzione dei processi bio-socio-educativi.[5]

Dunque è un percorso lato, valente per gli umani nella coppia, come nei gruppi amicali o didattici, altre forme d’apertura, di condivisione, d’amore[6]. Ma, come s’è visto, anche nell’incontro fra artista e materia. Il vero incontro, infatti, non è mai la semplice somma degli elementi coinvolti e solo nello spazio della relazione si realizza “la vera trascendenza” che dunque “è nell’intra.” [7] All’arte il compito, già secondo l’idealismo schellinghiano, “di realizzare questa identità superiore in cui io e mondo coincidono”[8].

[1] C. A. Duffy, Sung, in Le api, Firenze 2014, pp.136-137.

[2] J. Donne, A Valediction: forbidding mourning, in John Donne, Poesie sacre e profane, Milano 1995, pp. 130-133.

[3] B. Pietromarchi, Mario Merz. Città irreale, Ginevra-Milano 2015, pp.16-29.

[4] M. Dallari, La dimensione estetica della paideia. Fenomenologia, arte, narratività, Trento 2005, pp. 39-46.

[5] J. Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Milano 2002. In particolare Bruner parla del principio della prospettiva, principio delle limitazioni, principio del costruttivismo, principio dell’interazione, principio dell’esternalizzazione, principio dello strumentalismo, principio istituzionale, principio dell’identità e dell’autostima, principio narrativo, fra loro interagenti per la costruzione dei processi educativi e di significato della realtà e del sé nella realtà.

[6] D. Pennac, Diario di scuola, Milano 2008, pp.205-241.

[7] F. Cheng, Cinque meditazioni sulla bellezza, Torino 2007, p.18.

[8] F. Cheng, op. cit., p. 95.

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Francesco Hayez, Ritratto (postumo) di Gioachino Rossini, 1870, Pinacoteca di Brera, Milano

Francesco Hayez, Ritratto (postumo) di Gioachino Rossini, 1870, Pinacoteca di Brera, Milano

Splendido esemplare di musicista anomalo poiché ormai fuori tempo massimo (o in largo anticipo sui tempi a venire) il vecchio Rossini di metà ‘800, da decenni lontano dalle scene teatrali ed estraneo, anzi ostile al romanticismo imperante, nel buen retiro parigino di Passy comporrà da par suo, “un po’ per celia e un po’ per non morire”, i cosiddetti Péchés de vieillesse, sterminata benché ordinata raccolta di brani pianistici e vocali suddivisi in più album, culminati col capolavoro massimo, la Petite messe solennelle del 1863, in cui l’anziano maestro dimostrava non solo di essere aggiornatissimo sulle ultime tendenze, ma di poterle tranquillamente scavalcare infischiandosene delle beghe fra verdiani, wagneriani e via sfumando, riuscendo altresì ad anticipare le soluzioni timbriche che saranno adottate dallo Stravinskij de Les noces, il folgorante balletto dei primi anni ’20 del XX secolo.

Rossini era convinto che “l’espressione musicale” consistesse “nel ritmo, nel ritmo sta tutta la forza della musica. I suoni non servono all’espressione che come elementi del ritmo”, diceva.

Il ‘900 con tutte le sue nuove famiglie musicali, dalla classica contemporanea al jazz al rock e derivati vari, gli avrebbe dato pienamente ragione.

invenzioni carbonare tetraktis

In questo senso, uno dei lavori italiani più recenti e interessanti anche perché sincretico (e il sincretismo quando l’amalgama è sapiente vince sempre) è il disco pubblicato l’anno scorso da Decca e significativamente titolato “Invenzioni”, parola magica, legata all’etimo della ricerca come scoperta, il primo nato dalla collaborazione (peraltro avviata nel 2008) fra l’ottimo clarinetto di Alessandro Carbonare e il talentuoso ensemble di percussionisti Tetraktis.

Le 29 tracce per 9 autori presenti nel cd segnano una linea temporale che va dal 1910 con le sinuose, a tratti incalzanti, Danze popolari rumene di Bartók, al 2012 di F for Fake (titolo mutuato da Orson Welles per un lavoro “subacqueo” e dai contorni volutamente non afferrabili) di Riccardo Panfili, uno dei tre pezzi presenti ed espressamente dedicati a Tetraktis insieme al Ritual tribale e primordiale di Alessandro Annunziata che apre il disco e al Millennium Bug di Giovanni Sollima (a detta dello stesso autore: “una riflessione su un’ansia che divide equamente virtuale e reale, tecnologia e spiritualità, un’antica e ancestrale apprensione che l’uomo prova nei confronti delle grandi transizioni”), tutti pezzi che permettono al gruppo di esprimere appieno la vasta gamma dei propri colori e possibilità, cosa che del resto emerge anche nei più che brillanti omaggi a Monk e Zappa, oltre che nel minimalismo rivisitato della Music for pieces of Wood di Steve Reich o nei virtuosismi dello strepitoso Carbonare nella celebre Suite Hellénique di Iturralde.

La conclusione dopo tanta sfavillante energia è ancor più sorprendente dal momento che i Tre pezzi per clarinetto di Stravinskij del 1919 non lasciano affatto solo lo strumento per il quale sono stati originariamente composti, avendo i Tetraktis deciso di accompagnarlo con le percussioni che lo stesso Stravinskij aveva previsto per la Sagra della primavera del 1913.

Disco dunque assai colto, con operazioni intellettualmente raffinate, ma al contempo da chiunque ascoltabile, poiché quel tam tam che insieme alle melodie del fiato percorre la sua intera durata è nel cuore, nei muscoli, nelle ossa e nei nervi di ogni essere umano che abbia orecchio per ascoltare e con dita e mani e piedi tempo da battere.

www.carbonare.com

www.tetraktis.org

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