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Ed ecco il mio testo in catalogo per l’opera di Sara Vasini Tu, in mostra presso il MAR di Ravenna sino al 27 settembre all’interno della collettiva R.A.M. 2015 – Pedagogia dello sguardo. Buona lettura.

Sara Vasini, Tu, 2015

Sara Vasini, Tu, 2015

Tu, Sara Vasini

di Luca Maggio

“No man is an island, entire of itself; every man is a piece of the continent, a part of the main.” John Donne

“e leviga la sua notte, anello dopo anello” Mahmud Darwish

Tu: una serie di ditali da cucito disposti in fila ordinata su una parete. Il metallo luccica con la luce giusta. Dentro ognuno, misteri minuti e sospesi, delicati come “ombre di api sull’erba”[1].

Tu e lui: l’abbraccio finale, il ritrovarsi di Jean e Juliette sull’Atalante di Jean Vigo, poveri e splendenti sul pavimento dell’imbarcazione a sua volta sopra un letto di onde argentate: anime di una stessa anima, direbbe John Donne, e come le aste di un compasso, per quanto lontane, sono sempre unite in una promessa d’eterno ritorno.[2]

Tu e gli altri: dita d’infanzia in gioco che sfiorano forme su vetri appannati in un inverno bergmaniano, mani intrecciate a mani nella sera estiva al frinire di cicale impazzite, vite che s’incrociano, corpi che si mescolano, battute nate e perse, ben spese, con gli amici, l’urlo dell’amico a squarciare la collina fiorita, il muso del cane, andato come Arianna col suo filo, il baccanale sonoro del mercato, l’incanto di nuvole bianche e graffi sugli scogli della costa, successi, delusioni, giorni di sabbia, scarabocchi di cose che non si dimenticano. L’isola che non c’è.

Ed è Wendy a regalare a Peter Pan un ditale da cucito chiamandolo bacio.

Ecco cosa contengono i tanti Tu di Sara Vasini, un centinaio, affinché se ne veda da lontano la processione (come in Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna), senza però attribuire al numero valori particolari. Uno zero zero. Ma tutto ben ritmato, a ricordare nella ripetizione certe avventure fondanti il minimalismo musicale coi loro suoni elegantemente ossessivi, reiterati con variazioni e aggiunte e accumulazioni quasi nascoste dal fluire delle note, come gli undici accordi che sostengono la struttura di Music for 18 musicians di Steve Reich (1976) e ancor più i cinquantatré  moduli di In C di Terry Riley (1964).

Questi piccoli nidi metallici, nati per difendere le dita dal dolore dell’ago, come le basiliche bizantine in semplici e spogli mattoni esterni celano e proteggono i bagliori musivi interni, celano anch’essi e proteggono un mosaico di scaglie di materia povera come conchiglie e sassolini, oltre a cenni di turchese, ambra, corallo, tutti danzanti in moto circolare, dunque organico e vivificante, attorno al nucleo prezioso in tessera d’oro che è l’altro, il Tu cui si rivolge l’artista e che coinvolge chiunque guardi queste sedi simboliche dell’incontro, avendo saturato il proprio vuoto con frammenti densi ed essendo ormai divenuti altro dal proprio uso quotidiano, senza possibilità di ritorno, in un processo che parte dai ready-made duchampiani e passa per gli innesti di oggetti e neon di Merz[3] sino ai giorni nostri.

La tecnica con cui Sara ha costruito le sue microarchitetture non le è nuova, avendola già sperimentata nei lavori di You just sit there wishing you still make love (2012-13), ma lì, al centro, era la stilizzazione di una sedia, idea dell’attesa, qui è l’oro, con la sua luce, il tesoro che è il desiderio dell’altro da sé da accogliere al proprio centro. Se si è privi dell’altro, non può accadere mutazione, né sfida, né crescita, né vita. L’incontro è il cuore che cambia e genera. L’uno monolitico respinge. Non è esperibile. È invece vitale interpretare la realtà dell’altro, dandole senso attraverso la propria per uscirne noi stessi rinnovati, imparando a conoscere il valore delle differenze, in quanto portatrici dell’“ineludibile enigma”[4] dell’altro che rende a sua volta altro il nostro sé. Per questo è necessario mettersi in gioco senza risposte predefinite, facendo interagire anche le emozioni e i sentimenti di ciascuno (affrontando il labirinto stesso della memoria da punti di vista differenti), quali parti integranti nella costruzione dei processi bio-socio-educativi.[5]

Dunque è un percorso lato, valente per gli umani nella coppia, come nei gruppi amicali o didattici, altre forme d’apertura, di condivisione, d’amore[6]. Ma, come s’è visto, anche nell’incontro fra artista e materia. Il vero incontro, infatti, non è mai la semplice somma degli elementi coinvolti e solo nello spazio della relazione si realizza “la vera trascendenza” che dunque “è nell’intra.” [7] All’arte il compito, già secondo l’idealismo schellinghiano, “di realizzare questa identità superiore in cui io e mondo coincidono”[8].

[1] C. A. Duffy, Sung, in Le api, Firenze 2014, pp.136-137.

[2] J. Donne, A Valediction: forbidding mourning, in John Donne, Poesie sacre e profane, Milano 1995, pp. 130-133.

[3] B. Pietromarchi, Mario Merz. Città irreale, Ginevra-Milano 2015, pp.16-29.

[4] M. Dallari, La dimensione estetica della paideia. Fenomenologia, arte, narratività, Trento 2005, pp. 39-46.

[5] J. Bruner, La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Milano 2002. In particolare Bruner parla del principio della prospettiva, principio delle limitazioni, principio del costruttivismo, principio dell’interazione, principio dell’esternalizzazione, principio dello strumentalismo, principio istituzionale, principio dell’identità e dell’autostima, principio narrativo, fra loro interagenti per la costruzione dei processi educativi e di significato della realtà e del sé nella realtà.

[6] D. Pennac, Diario di scuola, Milano 2008, pp.205-241.

[7] F. Cheng, Cinque meditazioni sulla bellezza, Torino 2007, p.18.

[8] F. Cheng, op. cit., p. 95.

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monsieur lazhar

“La classe è un posto… è un luogo di amicizia, di lavoro, di garbo, sì, di garbo, un luogo di vita, in cui si vive la vita, in cui si dà la vita, non un luogo che porta dolore e sofferenza.” Bachir Lazhar 

Montréal, Québec. Inverno. Cortile innevato di una scuola. Di primo mattino grida giocose di ragazzi prima dell’ingresso. Saluti ai genitori. Prima dell’inizio delle lezioni, Simon, un ragazzino, entra nell’edificio scolastico per svolgere un compito abituale, prendere la cassettina dove mettere i cartoncini del latte per l’intervallo. Ma fa una scoperta terribile: la professoressa Martine Lachance si è impiccata proprio nella sua classe. Fugge e tempestivamente da parte delle altre insegnanti viene impedito l’ingresso a tutti. Solo un’altra ragazzina, Alice, disobbedisce e per un attimo vede la stessa scena del suo compagno. Il film si apre così.

Il primo intervento del mondo degli adulti, della preside in particolare, consiste nella chiamata di una psicologa per la classe mentre le pareti dell’aula vengono fatte ridipingere. Si pone poi il problema del sostituto a metà anno scolastico e per un posto che nessuno vuole prendere. È qui che entra in scena Bachir Lazhar, un cinquantenne algerino immigrato in Canada che si presenta con tanto di curriculum e documenti in regola, sostiene. Assunto.

Prime “vecchie” novità del metodo Lazhar: la disposizione dei banchi a mezza luna voluta dalla docente precedente per favorire l’apprendimento di gruppo cambia, si torna alla formazione classica dei banchi frontali e singoli, in “fila indiana”. Inoltre si fanno i dettati per conoscere il livello dei ragazzi, che, va detto, hanno fra gli 11 e i 12 anni. E si parte dal francese di Balzac, nonostante le iniziali perplessità e proteste degli alunni. Non solo. Quando Simon prende in giro una compagna, Lazhar gli dà uno scappellotto intimandogli di portare rispetto agli altri. Cosa che viene subito ripresa da un’altra ragazzina per l’uso delle mani. Infatti il contatto fisico in senso positivo o negativo è severamente vietato dalla legge, come gli ricorda anche la preside, che lo frena anche su altre iniziative: d’accordo il dettato ma non Balzac, meglio qualcosa di più semplice e assolutamente mai parlare dell’accaduto (il suicidio della Lachance) con i ragazzi, c’è già la psicologa. A questo proposito Lazhar vorrebbe assistere ad una delle sedute collettive che questa professionista fa con la classe, ma viene da lei stessa invitato a uscire, ad aspettare fuori, per evitare, secondo lei, che i ragazzi si sentano in soggezione, non liberi di esprimersi.

Parallelamente alle difficoltà di inserimento del nuovo professore  a scuola, il film rivela il vissuto assai doloroso e complicato del protagonista. Egli, che in patria era stato prima un funzionario statale e poi un gestore di ristorante (e non un insegnante come invece aveva dichiarato alla preside), è dovuto fuggire tempo addietro da Algeri per trovare un rifugio sicuro e lontano per sé e i propri familiari minacciati di morte a causa delle idee antigovernative di sua moglie (lei sì insegnante) espresse a chiare lettere in un libro. Sembrava che il Canada potesse essere il porto dove essere accolti e quando tutto sembrava pronto e organizzato per farli scappare, qualcuno ha tradito e nottetempo la moglie e i due figli sono stati uccisi, bruciati vivi nell’incendio a tutta evidenza doloso della loro palazzina. Bachir ha appreso queste cose solo in seguito, essendo già lontano, oltreoceano. E non ha neanche più potuto vedere o seppellire i suoi cari. Anzi teme che tornando in Algeria lo attenda morte certa ed è per questo che sta tentando di farsi accettare come rifugiato politico dalla legge canadese, che a sua volta sta procedendo a tutti i severi controlli del caso.

Nel frattempo continua il suo lavoro a scuola e la classe sembra rispondere sempre meglio al severo ma attento e affettuoso padre-insegnante, tanto da attaccargli a sua insaputa il classico pesce d’aprile sulla schiena, immagine simbolo del film non a caso poi usata sul manifesto-locandina.

Bachir ha modo di osservare il metodo di alcuni suoi colleghi, di Claire in particolare, che è bravissima coi suoi alunni in termini di didattica e disciplina, riuscendo a coinvolgerli divertendo. E Claire probabilmente non gli dispiace anche in senso più lato, cosa che del resto sembra essere ricambiata. Del resto lui è e si sente solo e commovente è la scena in cui lei lo sorprende mentre in solitudine, ascoltando un’eco di musica lontana e credendosi non osservato, accenna passi di danza della sua tradizione culturale. Ma tra i due non nascerà una vera storia: Bachir ha troppo dolore per lasciarselo così alla spalle da un giorno all’altro. È ancora troppo presto per dimenticare, o meglio per rinunciare a quella parte di dolore che è diventata parte della sua storia, della sua identità.

Il film procede alternando da una parte scene in classe, con lettura di temi, esposizioni orali, discussioni creative e produttive con gli alunni, drammatizzazioni di racconti e incontri coi genitori, dall’altra portando avanti la vicenda giudiziaria del protagonista che avrà un buon esito, ottenendo alla fine il riconoscimento di rifugiato politico in Canada e dunque il permesso permanente di poter vivere in questo Paese.

Invece, l’iter scolastico non si conclude altrettanto bene: nonostante gli evidenti miglioramenti degli alunni sia a livello didattico sia psicologico, alcuni genitori costringono la preside a fare indagini più accurate sul nuovo insegnante che continua a voler parlare dell’argomento tabù, il suicidio. Sicché la dirigente scolastica scopre la verità proprio verso la fine dell’anno, ovvero il fatto che Monsieur Lazhar non è un vero docente e quasi sul finale, in una sequenza toccante, gli intima di andarsene immediatamente. Bashir le chiede un ultimo favore e lo ottiene, sapendo far leva sulle corde giuste: finire almeno quella giornata di lezione e salutare i suoi ragazzi, senza far tragedie ma neanche abbandonandoli senza preavviso come la loro ex insegnante col suicidio.

Il film si chiude così, con la lettura di una favola scritta da Monsieur Lazhar: l’albero e la crisalide. Da una parte è un esercizio da far correggere collettivamente ai suoi alunni, essendo apposta piena di errori grammaticali, dall’altra è un addio struggente a queste giovani anime a lui accomunate da un percorso di accettazione del dolore, della morte e della sua insensatezza, tenendo però presente che la vita è sempre nuovamente possibile, anzi va ritrovata attraverso la forza più potente che esiste, l’amore, non a caso ultima parola della favola e del film, letta proprio sull’abbraccio fra Bashir e la giovane alunna “preferita”, Alice.

Bashir significa “portatore di buone notizie” e Lazhar “fortuna”: nell’etimologia del protagonista c’è buona parte del senso della pellicola che, come visto, si muove su due piani paralleli, le vicende scolastiche e quelle personali del nuovo professore, un uomo mite, profondamente buono (sa cosa e dove siano il bene e il male), ma determinato, fermo quando occorre. Soprattutto egli sa ascoltare, sa osservare e sa correggersi.

Rispetto alle risposte tanto politically correct quanto fredde degli altri adulti, che, a cominciare dalla preside, applicano il protocollo vista la situazione di non facile gestione, Bashir non si adegua senza essersi prima fatto delle domande nate cercando di ascoltare l’esigenza reale di quelle persone a tutto tondo che i ragazzi-bambini sono.

Tutto può essere utile per far emergere il dolore, quello stesso dolore che appunto gli altri adulti vorrebbero nascondere come polvere sotto il tappeto, illudendosi così di proteggere i propri cuccioli.

Il professore invece va coraggiosamente avanti per la sua strada, un tracciato comune di dolore che si è trovato a condividere con i suoi giovani allievi coi quali non cessa mai di parlare, anche singolarmente: per esempio dà un libro ad Alice, convince Boris a uscire dall’aula e andare a giocare in cortile, invita tutti a ringraziare la professoressa di inglese e durante un intervallo osserva i contenuti dei vari banchi, sempre per conoscere meglio i “suoi” ragazzi. In una parola, ne ha cura.

Tenta sempre di prendere il meglio degli altri e di adottarlo e adattarlo alle proprie capacità: osserva Claire fare teatro con i ragazzi e dopo qualche tempo, trovato un libro di favole di La Fontaine fra le cose dimenticate dalla Lachance, lo drammatizza in classe coinvolgendo tutti, inclusa una delle alunne più saccenti che dopo un’iniziale diffidenza ora si diverte molto col nuovo docente.

Durante una festa a scuola scoppia una lite fra Vik e Simon, reo quest’ultimo di aver spinto per terra il compagno e di conservare una foto-caricatura della Lachance con la corda da impiccata e le ali da angelo disegnate sopra. Il Consiglio di classe vuole dare l’esempio e sospende il ragazzo, con i pareri contrari però di Claire e Bashir che invita i suoi più esperti colleghi a riflettere sul fatto che “punire l’atto” non serve certo a risolvere “un disagio ben più grande”. Infatti è il devastante senso di colpa che Simon si porta dentro a emergere di lì a poco, visto che, mentendo, aveva accusato la Lachance di averlo molestato e poco tempo dopo lei si era uccisa facendosi trovare proprio da lui impiccata. Ancora una volta è Lazhar non la psicologa a consolare davanti alla classe Simon scoppiato in lacrime mentre è per caso riemerso il tema della morte: Bashir accarezza il ragazzo e lo consola davanti a tutti perché tutti partecipino alla catarsi. E dice che la morte della loro professoressa non ha senso, era da tempo malata e nessuno se ne deve fare una colpa. Insomma questa storia va affrontata insieme e solo insieme se ne può uscire.

In conclusione Monsier Lazhar insegna a tutti (colleghi, alunni, spettatori) e con umiltà, ad andare oltre i giudizi e i pregiudizi di ciascuno, in un parola ad amare, concetto chiave di questo strano mestiere che è insegnare, costruire sapere e personalità insieme ad altre giovani vite, da loro apprendendo se costantemente ci si mette in ascolto, cosa difficilissima quanto basilare. Vitale.

Illuminante in questo senso il VI e ultimo capitolo, non a caso titolato Cosa significa amare, del bellissimo e autobiografico Diario di scuola di Daniel Pennac: “So solo che quei tre (professori) erano pervasi dalla passione comunicativa della loro materia. Armati di quella passione, sono venuti a prendermi in fondo al mio sconforto e mi hanno lasciato andare solo quando ho avuto i piedi saldamente posati nelle loro lezioni che si rivelarono essere l’anticamera della mia vita.”

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Raymond Carver (1938-1988)

Raymond Carver (1938-1988)

Alle spalle, a volte, ci prendono i ricordi. Il che non è necessariamente un male. Fa parte della natura stessa del ricordare, essere sorpresi e così sospesi. Leopardi ci ha speso più di qualche idillio struggente e Proust ci ha costruito un monumento con alcune pagine davvero indimenticabili.

Che cosa è mai l’uomo, già, che cosa?

Viene a me naturale, da anni o da sempre, passare parole, immagini, musiche ad amici, conoscenti, colleghi che spesso ricambiano reciprocamente, perché non si può non restituire condividendo ciò che ci ha fatto bene, laddove questo bene vuol dire non solo consolazione ma anche dolore da affrontare o con cui confrontarsi. Comunque porsi domande e nulla di questo bene lasciare inerte.

A questi passaggi fondamentali fra esseri umani, Pennac ha dedicato la lectio magistralis della sua recente laurea honoris causa in Pedagogia a Bologna.

Mi è capitato di passare solo due o tre volte in tutto i versi di una poesia di Carver che pure amo molto e che da tempo conservo nella mia babelica scatola-biblioteca di fogli sparsi. Perché non l’ho fatta circolare di più? Certo, bisogna trovare le persone adatte, ma non è solo quello. L’ho capito di recente. Ero in libreria per acquistare un testo che non ho poi trovato e come capita assai spesso ne ho adocchiato un altro che neanche sospettavo fosse stato pubblicato (i miei scaffali sono per la maggior parte pieni di incontri cartacei casuali). In questo caso si trattava del volume che raccoglie tutte le poesie di Raymond Carver. Apro la trovo lo faccio mio. E lì arriva il fulmine del ricordo. Avevo dimenticato chi me l’aveva regalata anni fa. Erika. Capelli neri, occhi chiari, velo di efelidi su pelle di latte e una santa voglia di ridere, di scherzare su tutto, di prendersi con la grazia della leggerezza e di riuscire a tirare fuori dall’altro, da me, altrettanta gaiezza. Che intese a volte nella vita. E l’attrazione fisica nulla c’entra, per quanto. Semplicemente è altro il livello.

Ci siamo persi poi. Senza dolore o strappi. Succede. Di lei mi era rimasto solo il foglio di Carver che mi lesse un giorno, tanto di quel tempo fa da non riuscire più a collegarlo di primo acchito a chi me lo aveva regalato. Era rimasta, questo sì, la consapevolezza inconscia che quella paginetta era misteriosamente preziosa e andava come protetta, non diffusa. Era qualcosa di mio, di privato. Non so se vi è mai capitata una sensazione simile. Invece, improvviso, col libro tra le mani ecco il suono della sua risata tornare nel mio orecchio.

Oggi ho fatto pace con quel bel ricordo e ho deciso di liberarlo, di pubblicarlo insieme ai versi di Carver. Vi diranno qualcosa o forse nulla. Ma ora sono anche vostri.

Raymond Carver e Tess Gallagher

Raymond Carver e Tess Gallagher

DOVE L’ACQUA CON ALTRA ACQUA SI CONFONDE

Adoro i torrenti e la musica che fanno.
E i ruscelli, nelle radure e nei prati, prima
che diventino torrenti.
Forse li adoro soprattutto
per la loro segretezza. A momenti dimenticavo
di dire qualcosa sulle sorgenti!
Può esserci una cosa più meravigliosa di una fonte?
Ma anche i grandi corsi d’acqua hanno il loro cuore.
E i luoghi in cui confluiscono nei fiumi.
Le foci aperte dei fiumi che sfociano nel mare.
I luoghi dove l’acqua con altra acqua
si confonde. questi luoghi mi si stagliano
nella mente come luoghi sacri.
Ma questi fiumi lungo la costa!
Li amo come alcuni amano i cavalli
o le donne affascinanti. ho un debole
per questa acqua veloce e fredda.
Mi basta guardarla perché il sangue scorra più veloce
e un brivido mi percorra la pelle. Potrei stare
a guardarli per ore questi fiumi.
Non ce n’è uno che somigli a un altro.
Oggi compio quarantacinque anni.
Chi ci crederebbe ora se dicessi
che una volta ne avevo trentacinque?
E che avevo il cuore freddo e vuoto, a trentacinque anni!
Sarebbero passati altri cinque anni
prima che ricominciasse a scorrervi del sangue.
Mi prenderò tutto il tempo che voglio oggi pomeriggio
prima di lasciare questo posto accanto al fiume.
Mi piace amare i fiumi.

Amarli a monte fino
alla sorgente.
Amare tutto quello che mi fa crescere.

Raymond Carver (1938-1988), da Racconti in forma di poesia (Where Water Comes Together with Other Water, 1985), in Raymond Carver, Orientarsi con le stelle – Tutte le poesie (Roma 2013, titolo orig. All of Us, 1996).

Ps. Non so per quali strane associazioni sinaptiche, ma questi versi mi fanno venire alla mente la Sonata in La maggiore KV 331 di Mozart, in particolare le prime delicatissime note qui suonate con la grazia irraggiungibile della semplicità dal maestro Aldo Ciccolini. E ora provate a rileggerlo Carver con questo accompagnamento, poi a occhi chiusi o completamente aperti lasciate che le parole scorrano via e sia solo la musica.

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Daniel Pennac durante la Laurea ad honorem in Pedagogia, Bologna 26 marzo 2013

Daniel Pennac durante la Laurea ad honorem in Pedagogia, Bologna 26 marzo 2013

(…) Altri fortunatamente – professori, critici, librai, bibliotecari – preferiscono essere dei passeurs, degli intermediari che trasmettono la cultura agli altri. Che è molto più di un ruolo, è una maniera d’essere, un comportamento. I passeurs sono curiosi di tutto, leggono tutto, non confiscano nulla, trasmettono il meglio ai più.

Passeurs sono i genitori che non pensano solo a bardare i figli di letture utili in vista di un rapido diploma, ma che, conoscendo il valore inestimabile della lettura, si augurano di trasformarli in lettori di lungo corso.

Passeur è il professore di lettere, le cui lezioni ci spingono a correre immediatamente nella prima libreria. Non accontentandosi d’insegnare la letteratura francese in Francia, l’italiana in Italia o la tedesca in Germania, egli – grazie a quell’altro passeur, il traduttore – apre tutte le frontiere letterarie, dando accesso all’Europa, al mondo, all’umanità e a tutte le epoche della letteratura.

Passeur è il libraio che introduce i suoi giovani clienti agli arcani della classificazione, insegnando loro a viaggiare tra i generi, le tematiche, gli autori, i paesi, le epoche… facendo della sua libreria il loro universo.

Passeur sono i professori universitari che non si limitano a formare dei chirurghi della letteratura, ma delle persone capaci di risvegliare le coscienze e di scatenare la meraviglia.

Passeur è il bibliotecario capace di raccontare i romanzi presenti sui suoi scaffali!

Passeur è l’editore che si rifiuta d’investire esclusivamente nelle collane di best seller, senza però rinchiudersi nella torre d’avorio della letteratura sperimentale.

Passeur, il critico letterario che legge tutto, che scopre e fa leggere il giovane romanziere, il giovane drammaturgo, il nuovo poeta, oppure colui che resuscita il grande scrittore dimenticato, invece di pavoneggiarsi in una vanità da becchino raffinato.

Passeur il lettore, la cui biblioteca personale contiene ormai solo romanzi brutti e saggi di seconda mano, dato che ha prestato tutti i suoi libri migliori senza che questi venissero mai restituiti. In effetti, poiché l’atto di lettura è fondamentalmente un atto di antropofagia, è sconsiderato aspettarsi che un libro prestato ci venga un giorno restituito.

Passeur supremo infine è colui che non vi domanda mai cosa pensate del libro che avete appena finito di leggere, perché sa che la letteratura non ha nulla a che fare con la comunicazione. Se siamo passeurs convinti, siamo anche i guardiani del nostro tempio interiore.

L’ho scritto in Come un romanzo: “L’uomo vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa solo. La lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun’altra, ma che nessun’altra potrebbe sostituire. Non gli offre alcuna spiegazione definitiva sul suo destino ma intreccia una fitta rete di connivenze tra la vita e lui. Piccolissime, segrete connivenze che dicono la paradossale felicità di vivere, nel momento stesso in cui illuminano la tragica assurdità della vita. Cosicché le nostre ragioni di leggere sono strane quanto le nostre ragioni di vivere. E nessuno è autorizzato a chiederci conto di questa intimità.”

Sì, è proprio la paradossale missione del passeur di libri: offrire a ciascuno di noi il piacere segreto di poter diventare il guardiano del proprio tempio interiore.

Daniel Pennac, da Una lezione di ignoranza, lezione dottorale tenuta in occasione della Laurea ad honorem in Pedagogia conferitagli dall’Alma Mater Studiorum di Bologna il 26 marzo 2013.

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diario_di_scuola_danielpennac

Il diritto del bambino è di essere un uomo. Ciò che fa l’uomo è la luce; ciò che fa la luce è l’istruzione. Quindi il diritto del bambino è l’istruzione gratuita, obbligatoria.” Victor Hugo, Cose viste 

Daniel Pennac: Diario di scuola (in ita. Feltrinelli, Milano 2008). Ogni insegnante dovrebbe leggere questo libro, anzi anche ogni alunno o ex alunno: vale più di tanti trattati pedagogici pieni di definizioni fumose e teoriche che cambiano da autore ad autore, avendo in comune solo la scadenza, pari a quella di uno yogurt.

Qui no, qui si raccontano esperienze vere, in sostanza la vita scolastica di Pennac, anzi di Daniel Pennacchioni (famiglia d’origine corsa), prima ex alunno “somaro”, come si definisce egli stesso, uno di quelli proprio negati per ogni apprendimento, uno di quelli che “ma non è possibile, allora la fai apposta!” etc. etc., e poi, miracolo, professore di francese (proprio lui!) e scrittore di successo mondiale.

Com’è stata possibile una tale mutazione?

Il testo con la consueta leggerezza alla Pennac (in realtà una virtù rara e difficile che credo si possa affinare col tempo, ma devi averne di base, un po’ come il coraggio), alterna le vicissitudini dell’allievo a quelle dell’insegnante, e raccontando dà spunti e suggerimenti senza volerne cattedraticamente dare, narra di vittorie e sconfitte, perché il prof. perfetto, come lo studente perfetto, non esiste, è semmai colui che non si arrende e continua ad imparare (guardate l’ottimo docu-film La classe – Entre les murs di Laurent Cantet, 2008), specie dai ragazzi, mettendosi in discussione, sapendoli ascoltare e sì, anche valutare con onestà (poiché la stessa oggettività assoluta è una chimera).

La chiave di volta è l’incontro con quei due o tre docenti che in adolescenza ti cambiano la vita, perché sono mossi da passione, elemento anche per me fondamentale per questo mestiere, passione per la loro materia e passione nel volerla e saperla trasmettere, in sostanza nel rendere curiosi i propri ragazzi. Tutto sta nell’individuare il presunto nemico (le frazioni, le equazioni, i pronomi, l’analisi dei complementi, etc.) e scoprire insieme che non bisogna averne paura: si tratta di liberare il ragazzo dalla maledetta paura di non capire, che non lascia tregua anche alla stima che uno ha di sé portandolo al rifiuto totale, all’estraneità rispetto a qualsiasi materia (“tanto sono negato e poi ‘sta roba nella vita non serve a niente”). E invece no, sediamoci, parliamone, affrontiamo insieme la scalata, abbiamo tempo. E tu puoi, tu vali.

A questo proposito, commoventi le pagine del VI e ultimo capitolo, non a caso titolato Cosa significa amare: “Era lui stesso (il professor Bal) un grande matematico? E l’anno seguente la professoressa Gi un’eccellente storica? E nell’ultimo anno che ripetei, il professor S. un filosofo senza pari? Presumo di sì, ma in verità lo ignoro; so solo che quei tre erano pervasi dalla passione comunicativa della loro materia. Armati di quella passione, sono venuti a prendermi in fondo al mio sconforto e mi hanno lasciato andare solo quando ho avuto i piedi saldamente posati nelle loro lezioni che si rivelarono essere l’anticamera della mia vita. Non che si occupassero di me più che degli altri, no, consideravano alla stessa stregua gli studenti che andavano bene e gli studenti che andavano male, e sapevano risvegliare in questi ultimi il desiderio di capire. Accompagnavano passo dopo passo i nostri sforzi, si rallegravano dei nostri progressi, non si spazientivano per la nostra lentezza, non consideravano mai i nostri insuccessi come un’offesa personale e si mostravano con noi tanto più esigenti in quanto tale rigore era fondato sulla qualità, la costanza e la generosità del loro stesso lavoro.”

Anch’io, per mia fortuna, ho avuto dei professori Bal, Gi ed S., fari della cui luce tuttora continuo a beneficiare. Poi, certo, ho incontrato anche docenti che avrebbero fatto meglio a cambiare mestiere, frustrati e rancorosi, in una parola privi di amore. Pennac narra del maestro Blamard, “il più terribile di tutti, triste aguzzino dei miei nove anni, che fece piovere tanti di quei brutti voti sulla mia testa” e all’ennesima lamentela sulla media del 2 della classe, il giovane Pennacchioni osa rispondere che “o la nostra classe costituiva una mostruosità statistica (32 studenti che non riuscivano a superare la media del 2 in scienze), oppure quel risultato miserrimo sanciva la qualità dell’insegnamento dispensato. Soddisfatto di me stesso, presumo. E sbattuto fuori. “Eroico ma inutile” osservò un compagno. “Sai qual è la differenza tra un prof. e un utensile? No? Il prof. non è riparabile.”

La mia Blamard insegnava italiano al liceo (per la verità anche quella di scienze non scherzava: tremavamo dinanzi a lei): tutto l’anno a dare una serie infinita di 5 nei temi (specie agli alunni maschi), senza alcuna correzione peraltro. Alla domanda cos’è che non va, vorrei capire, cercare di migliorare, la solita risposta annoiata, è lo stile, no? C’era da convincersi di essere delle nullità senza speranza. Alla fine ebbi la pensata giusta, quanto meno per provare qualcosa a me stesso: l’arpia ci aveva detto che fra le tracce dell’ultimo tema dell’anno ci sarebbe stata una recensione. Ne copiai di sana pianta una di Raffaele La Capria presa dal Corriere della Sera di qualche giorno prima e la proposi tale e quale, ovviamente omettendo il particolare del vero autore. Risultato? 5+, “ giusto perché siamo alla fine dell’anno e sono più buona”. Avessi scelto un Nobel, forse un 6- poteva scappare. La verità triste è che per motivi suoi, quella signora non ha mai letto i miei scritti, come quelli di chissà quanti altri. Il voto era già assegnato in partenza, alla sola vista del cognome. Da parte mia ne seguì uno sputtanamento doveroso e senza pari con tutti i suoi colleghi e con i miei compagni di classe. Anni dopo, magra consolazione, la incontrai per caso in biblioteca a Bergamo quando, più rinsecchita che mai e anche claudicante (segno che qualche colpo le era arrivato), ebbi finalmente il coraggio liberatorio di guardarla dritta nei suoi occhietti piccoli e cattivi e dirle: “Vecchia stronza!”. La sua faccia a culo di gallina era incredula, me ne andai trionfante. Questo è il risultato di quella “speciale ferocia” che, dice Pennac, questi esseri preposti ma in verità opposti all’insegnamento sanno suscitare nei loro malcapitati allievi, “qualcosa di simile alla rabbia con cui il naufrago trascinerebbe a picco con sé il capitano codardo che ha lasciato la nave incagliarsi sullo scoglio”. Tutto passato, per fortuna, è ormai nel tempo. Però quanta sofferenza inutile, quanta energia sprecata.

Meglio ricordarsi dei maestri che hanno fatto bene alla nostra esistenza, come la professoressa del ginnasio che mi fece scoprire e amare Poe, Balzac, Čechov, Tucidide e gli storici francesi. Una volta ci portò in uscita didattica a Milano per vedere un Godot. Cosa sarebbe stata la mia vita senza letteratura, senza poesia né teatro, tutte cose da cui l’altra ignobile tentò di allontanarmi col peso della sua autorità? Forse avrei incontrate lo stesso quelle pagine, ma più tardi, spaventato, avvicinandomi con cautela. Per fortuna è andata diversamente. Grazie di cuore professoressa S., anima nobile.

Dice ancora Pennac: “invece di raccogliere e pubblicare le perle dei somari che suscitano l’ilarità in tante aule professori, bisognerebbe scrivere un’antologia dei bravi insegnanti. La letteratura non manca di simili testimonianze: Voltaire che rende omaggio ai gesuiti Tournemine e Porée, Rimbaud che sottopone le sue poesie al professor Izimbard, Camus che scrive lettere filiali al signor Martin, suo adorato maestro, Julien Green che ricorda con affetto l’immagine vivida del professor Lesellier, suo insegnante di storia, Simone Weil che fa le lodi del suo maestro Alain, il quale non dimenticherà mai Jules Lagneau che lo introdusse alla filosofia, J.-B. Pontalis che celebra Sartre, che “spiccava” così tanto fra gli altri professori…

Se, oltre a questi maestri celebri, l’antologia offrisse il ritratto dell’insegnante indimenticabile che quasi tutti abbiamo incontrato a un certo punto del nostro percorso scolastico, forse ne trarremmo qualche lume sulle doti necessarie alla pratica di questo strano mestiere.”

Giuseppe Battiston legge “Diario di scuola” di Daniel Pennac

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