Sono due le mostre pensate e inaugurate nella primavera 2021 sul territorio romagnolo per celebrare Dante nel settecentesimo anniversario della scomparsa, l’uomo, l’autore, il mito letterario: l’una a Forlì, Dante. La visione dell’arte, curata da Gianfranco Brunelli, Fernando Mazzocca, Antonio Paolucci e Eike D. Schmidt, e promossa dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, dall’omonimo Comune e dalle Gallerie degli Uffizi, presso il complesso museale di San Domenico; l’altra a Ravenna, Dante e le arti al tempo dell’esilio, curata da Massimo Medica e promossa dal Mar, Comune di Ravenna e Assessorato alla Cultura, presso la Chiesa di San Romualdo, nell’ambito di numerose altre iniziative correlate che culmineranno col prossimo settembre dantesco (ricordiamo che il poeta morì fra il 13 e il 14 settembre 1321).
Premesso che entrambe le esposizioni sono grandi, valide e da visitare, vorrei soffermarmi sul doppio significato dell’aggettivo grande: derivato dal latino grandis, esso indica nella doppia accezione sia qualcosa di notevole per estensione e proporzioni, sia qualcosa di importante e straordinario.
La mostra forlivese – purtroppo, come sempre – pecca di horror vacui, per cui è grande in entrambi i sensi: avendo spazi decisamente rimarchevoli ogni anno viene presa la decisione di riempirli tutti, sino all’ultimo angolino a disposizione probabilmente ambendo a coprire ogni aspetto del tema di volta in volta indagato, cosa che per altro potrebbe ben svolgere l’apparato critico e di fatto è assolta dal documentatissimo catalogo. Sicché accanto a capolavori assoluti (da Beato Angelico a Giotto, da Casorati a Dante Gabriel Rossetti, passando per codici miniati e sculture medievali o antiche di sicuro valore storico e artistico) e altre opere minori ma altrettanto importanti, ci sono vistosi cali di tensione, sino a cadere nella ridondanza soprattutto ottocentesca – grafica o dipinta o scolpita – tale per cui, dopo tanti anni, ancora mi domando quale sia il motivo di ribadire con decine e decine di esempi e repliche i concetti chiave che la mostra dovrebbe chiarire, rischiando di far perdere il filo o i fili rossi che dovrebbero condurre il ragionamento. Dopo centinaia di oggetti esposti, inevitabilmente, non riesco mai a vedere le ultime sale con l’attenzione che probabilmente meriterebbero. Ma lo sguardo ormai è stanco, distratto da tanti lavori precedenti di cui si sarebbe potuto fare a meno, perché non completano anzi appesantiscono la qualità di un percorso che, ribadisco, è comunque da visitare.
La mostra organizzata a Ravenna è decisamente più contenuta, occupando gli spazi dell’ex chiesa camaldolese attigua alla Biblioteca Classense e nelle immediate vicinanze del museo TAMO, luoghi dove pure sono in corso altri eventi espositivi legati a Dante, insieme al rinnovato Museo dantesco presso i Chiostri francescani in prossimità della Tomba del poeta. Tuttavia, proprio la compattezza del luogo e l’attenta selezione di opere in esso contenute rendono grande nel secondo significato questa esposizione di cui sin dal titolo si capisce l’ambito di ricerca: Le arti al tempo dell’esilio.
Così, seguendo un allestimento diviso attraverso i nomi delle città vissute dall’Alighieri, si alternano sulle pareti o sotto teca una serie di capolavori dipinti, scolpiti, miniati, intagliati ecc., o di opere, talvolta copie, comunque di fondamentale valore esplicativo tali per cui alla fine del circuito anche il visitatore meno accorto ha un’idea precisa di ciò che Dante può aver visto durante il suo peregrinare e che ha sicuramente contribuito a alimentare la sua già fervida fantasia: dalla Firenze natia con Cimabue e l’amato Giotto, alla Roma dell’odiato Bonifacio VIII, citando poi, fra le altre, Perugia e Bologna, Forlì e Lucca, Verona e Padova, e dunque ancora Giotto insieme a vari preziosissimi codici miniati, Arnolfo di Cambio e i Pisano – Nicola e Giovanni – mosaici e lacerti di affresco restanti dall’antica Basilica Vaticana, sino alla meta finale, Ravenna, con i suoi superlativi mosaici che tanto hanno partecipato alla definizione di alcune immagini paradisiache, senza dimenticare i giotteschi Pietro e Giuliano da Rimini o la semplice e bellissima Madonna (fine XIII secolo) di anonimo maestro veneziano-ravennate che pare ornasse la prima sepoltura di Dante, prima di essere rimossa dall’architetto Morigia per la costruzione della nuova e attuale Tomba verso il 1780, per essere poi acquistata nel 1860 dal collezionista francese Davillier, che alla sua morte l’avrebbe infine ceduta insieme a tanta parte delle sue raccolte al Louvre, dove ancora oggi è conservata.
Un’ultima nota. A parte i nomi scintillanti sopra elencati, desidero sottolineare la presenza di due oggetti: il tessuto azero ritrovato nel sarcofago di Cangrande della Scala, che molto dice sui contatti non solo commerciali di alcune realtà italiane con l’Asia anche dopo Marco Polo e soprattutto il faldistorio, oggi a Perugia, di probabile e pregevolissima fattura federiciana, successivamente donato da Carlo II d’Angiò al pontefice Bonifacio VIII, un oggetto colmo di storia, sintesi come la Commedia di più motivi medievali e culturali – dagli intagli finissimi e decorazioni geometriche e fitomorfe alle strepitose coppie leonine delle cime – e insieme peregrino come l’illustre protagonista cui è dedicata questa grande mostra.