È stato detto che i sei Manifesti Spaziali (1947-1952, cui si può aggiungere anche il Manifiesto blanco del 1946) hanno carattere neofuturista per la volontà dinamica che li caratterizza, “che rispecchi lo spirito del tempo” nell’impiego programmatico di materiali e mezzi cinetici fino ad allora inediti in arte (televisione, radar, neon) e per l’attenzione all’ultraterrestre che allora andava affacciandosi: l’avventura dell’uomo nello spazio.
Tutto esatto: ma a differenza del moto pieno boccioniano, Fontana privilegia i vuoti, lo sgretolarsi e animarsi agitato della materia, il suo quasi ribollire, com’è già evidente nelle terrecotte e ceramiche degli anni ’30, forate o squarciate da tagli (come coi graffiti e le perforazioni sulle tele future), spettacolarmente neobarocche e insieme dinamiche, neofuturiste appunto (non futuriste tout court), in movimento talvolta concentrico e multicolore, intuizione della forma della galassia e delle sue linee, come lo saranno, dagli anni’50, le installazioni curve col neon di cui si è parlato nella parte prima di questo post.
A questo proposito Flaminio Gualdoni cita Raffaele Carrieri, che “in una memorabile recensione, dice di un Fontana passato dalla materia “lampeggiante e vorticosa” a questa “grotta cabalistica”, di un Fontana che “ebbe il coraggio di sacrificare le sue mani”, ovvero il virtuosismo, e di impiegarle per “modellare l’aria. L’aria che nelle sue mani diventava un corpo fluido e rutilante…”. Spazio fisico, spazio mentale, spazio emotivo; percezione intuizione suggestione: non immagine del cosmo, ma cosmo effettivo che si riaggrega, e si ripensa, dopo l’ekpuròsis della forma. Questo è l’Ambiente spaziale. Figlio di cromosomi barocchi – lo spettacolo, la mai dismessa condizione di bellezza – e insieme d’una intuìta nuova situazione e sostanza dell’arte, eccedente la gabbia convenzionale delle due e delle tre dimensioni. Nascono, per complicità intuitiva, i primi buchi. Concetti spaziali, come titoleranno tutte le opere a venire di Fontana, indipendentemente da foggia, modalità, tecnica, destinazione. Altro, ormai, è il problema.” Tant’è che tali concetti spaziali “la domanda se essere pittura o scultura proprio non se la pongono.” (Flaminio Gualdoni, Itinerario di Lucio Fontana, in Fontana, Ferrara, 1994)
Ma Fontana, uomo ed artista sensibilissimo a captare il presente (e il futuro) della propria epoca (si pensi alla serie dei monocromi poligonali Quanta o agli ovali Fine di Dio), era congiunto anche al passato più remoto dell’uomo, proprio grazie al fatto gestuale, violento ed elegante, primordiale e, una volta ancora, scultoreo: i buchi, poi, i tagli.
Come aveva da subito capito quell’altro genio di Emilio Villa paragonando certi risultati contemporanei di Fontana alle radici ancestrali dei segni lasciati dai cosiddetti uomini primitivi del Paleolitico superiore (tra dodici e trentamila anni fa), in grotte e manufatti simbolici (incredibilmente somiglianti, ad esempio, alle serie di fori e graffiti dello spazialismo fontaniano), il cui scopo era potenziare “nella ripetizione rituale l’atto sacrificale” (Villa-Tagliaferri, L’arte dell’uomo primordiale, postumo, Milano, 2005) e rigenerare la vita, così come Fontana rigenerava attraverso il suo operare le possibilità espressive dell’arte e della vita dell’uomo del suo tempo in un’idea nuova di spazio.
Proprio questa tensione all’infinito della vita, dello spazio, del tempo (come nell’opera totale wagneriana, il Wort-Ton-Drama, pur con le differenze del caso) è la medesima che si incontra nei mistici o nelle torsioni del barocco migliore e si pensi, sempre in Fontana, alla preziosità di certi mosaici o alla serie dorata dei concetti spaziali veneziani, di inizio anni ‘60.
Buchi praticati con lo scalpello dello scultore sulla superficie un tempo solo pittorica e, poco più tardi, riassunti nel taglio, unico o replicato, sintesi da cui partire per un concetto ignoto di spazio ed antichissimo di uomo: la fessura vaginale, per dirla con Courbet, il buio extraterreste ed insieme uterino, quasi anticipazione dell’Odissea kubrickiana, origine, anche nei miti, del mondo, della vita.
In fondo, come diceva Fontana stesso, nel trapasso, oltre la tela, non c’è che l’infinito.
Ps. Qualche anno fa vidi alla Tosio Martinengo di Brescia, in una mostra basata sui confronti fra capolavori del passato e contemporanei, un concetto spaziale fontaniano in rosso con tagli plurimi affiancato al bellissimo Redentore benedicente di Raffaello, una delle perle della collezione locale, con la ferita del costato ancora aperta e sanguinante, a dire di ulteriori possibili dialoghi fra segni così diversi e apparentemente distanti nel tempo e nelle matrici d’origine.