Wisława Szymborska (1923-2012)
Preferisco il ridicolo di scrivere poesie/ al ridicolo di non scriverne. W. Szymborska
Ho incontrato Wisława per la prima volta nel 1997, da ragazzo, prima che diventasse una moda radiotelevisiva, attraverso un libretto della Mondadori della serie benemerita I miti poesia: ogni due settimane aspettavo con ansia e gioia ogni pubblicazione nuova che per 4.900 lire mi faceva scoprire tanti poeti stranieri e italiani a me ignoti o riscoprire superclassici come Leopardi finalmente liberati dalle zavorre scolastico-ministeriali e splendenti solo di bellezza propria.
Sulla copertina era riportato l’anno del suo Nobel, il 1996, forse per invogliare i più diffidenti davanti a quello sconosciuto (allora) nome polacco. Ma come ho detto, io ormai acquistavo sulla fiducia, anche perché spesso i Nobel sono stati assegnati ad autori di secondo ordine trascurando giganti come Borges o Proust.
Il “tu” con cui in apertura mi sono rivolto alla poetessa recentemente scomparsa non vuole essere una mancanza di rispetto: intanto ogni scrittore che pubblica dà in qualche modo del tu al suo lettore. Inoltre sempre sul quel libretto mondadoriano che radunava venticinque poesie tratte da due delle sue più belle raccolte, Gente sul ponte (1986) e La fine e l’inizio (1993), avevo annotato come fosse la sua stessa lingua, così diretta, colloquiale, arditamente semplice (come in Billy Collins, Ghiannis Ritsos, Sandro Penna, e invece, come paiono irrimediabilmente invecchiati oggi i ghirigori di tanta neoavanguardia anni’60), a darmene quasi il consenso.
Con lei mi sentivo a casa, come da una vecchia, molto saggia, zia. Anni dopo, quando effettivamente l’ho incontrata di persona a Bologna, il 27 marzo 2009, in occasione di un’onorificenza dell’Alma Mater (una laurea honoris causa? Non ricordo più), ho subito pensato che si presentava come me l’aspettavo, come i suoi versi me l’avevano fatta immaginare. Corrispondeva.
Naturalmente in rete erano disponibili centinaia di foto, ma una cosa è vedere una riproduzione (di qualsivoglia oggetto, edificio, paesaggio o persona), altra è farne esperienza diretta: ed eccola lì, la Szymborska, minuta e grandissima, vestita di chiaro, curata e asciutta con le rughe che sono il racconto, i segni dell’aratro-vita sul terreno di un volto, dolcissima e dura ad un tempo, come la sua lingua a me incomprensibile, fortunatamente tradotta con cura eccellente, con amore direi, dal compianto Pietro Marchesani (1942-2011).
Franco Loi in una bella intervista (Il canto della vita a cura di Marco Manzoni, in Da bambino il cielo, Milano 2010) cita la convinzione di Petrarca sul fatto che la poesia, quando è vera poesia, è sacra come la Scrittura. Anche per Ungaretti la poesia era preghiera e per Patmore l’unica differenza fra un mistico e un poeta stava nel fatto che il primo tace ciò che il secondo dice.
Continua Loi dicendo che la radice indoeuropea della parola sacro vuol dire “distanza”: dunque chi si occupa del sacro tenta di colmare distanze, come il pontifex latino, il pontefice, colui che, stando alla lettera, costruisce ponti (fra noi e il divino). E cosa fa il poeta se non cercare di avvicinarsi all’indicibile, alla verità delle verità insomma? Certo più in là non si può andare: persino Dante di fronte a Dio sospende la parola: “A l’alta fantasia qui mancò possa” (Paradiso, XXXIII, 142).
Nei versi della Szymborska c’è tanta verità ma detta nel più semplice dei modi (questo spiega il suo meritatissimo successo di vendite, oltre al desiderio di poesia più diffuso di quanto non si pensi: ma più che l’opera omnia pubblicata da Adelphi, suggerisco di farsi tentare anche dalle singole perle azzurre Scheiwiller) e con la consapevolezza, da profonda ammiratrice del Qoelet, che “l’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante «non so». (…) Anche il poeta, se è un vero poeta, deve ripetere di continuo a se stesso «non so». Con ogni sua opera cerca di dare una risposta, ma non appena ha finito di scrivere già lo invade il dubbio e comincia a rendersi conto che si tratta di una risposta provvisoria e del tutto insufficiente” (da Il poeta e il mondo, discorso per il Premio Nobel, 1996). Non a caso c’è in lei tanta ironia, salti d’arguzia dove non li aspetti e dove sono in realtà necessari, sapientemente orditi dalla maga poetessa per incantarci, per farci allungare il passo e colmare la distanza fra ciò che neanche sospettavamo fosse già dentro di noi: Sulla morte senza esagerare, Vista con granello di sabbia, Nulla è in regalo, Amore a prima vista, Possibilità, Qualche parola sull’anima, Elenco e decine di altre: leggete, stupite, riconoscetevi.
A proposito, vi lascio con La cipolla, poesia e sorriso con cui mi piaceva chiudere i reading tanti anni fa (posso dire nel secolo scorso!), mosso dalla pura voglia di far sentire a degli sconosciuti ciò che ritenevo importante, perché mi aveva fatto capire “che esiste la vita e l’individuo,/ che il potente spettacolo continua, e tu puoi contribuivi/ con un tuo verso” (Walt Whitman).
Quasi scordavo: quella volta a Bologna sono riuscito a farmi firmare un suo libro e, sebbene di persona avrei preferito darle del lei, mi è scappato in inglese “thank you, for my life”. Non so se abbia capito o forse solo per educazione, ma in una frazione di secondo m’è parso reclinasse leggermente il collo, quasi stupita negli occhi, per allungare gli angoli della bocca in un sottile sorriso.
La cipolla
La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.
In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d’inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.
Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.
La cipolla, d’accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezione.
E a noi resta negata
l’idiozia della perfezione.
Wisława Szymborska, da Grande numero (1976), in Vista con granello di sabbia – Poesie 1957-1993 (Milano 1998).
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